Perché l’asilo nido e la scuola materna devono diventare un diritto

linkiesta_logo2Linkiesta, 6.7.2019

–  I posti messi a disposizione dai Comuni sono sempre meno delle richieste. Ma quali sono i fattori che incidono sulle graduatorie, determinando chi è ammesso e chi no? Il meccanismo è inceppato, perché paradossalmente penalizza i più deboli lasciando fuori i figli dei disoccupati e degli immigrati

Chi ha diritto al servizio di asilo nido e di scuola materna? Come si organizzano le famiglie con uno o più bambini nella fascia di età tra zero e sei anni, che quindi non hanno ancora cominciato la scuola dell’obbligo?
Le opzioni sono varie. La prima è che uno dei due genitori – generalmente la madre – resti a casa ad occuparsi dei bambini. Un’altra è il cosiddetto welfare familiare, nonni o altri parenti disponibili a occuparsi dei bambini per il tempo in cui genitori sono al lavoro.
La terza opzione è quella di iscrivere i bambini all’asilo nido, cioè la struttura dedicata all’accudimento di bambini tra tre mesi e tre anni, oppure la scuola materna, lo step successivo, che accoglie i bambini dai tre anni fino al momento dell’ingresso in prima elementare.

Asili nido e scuole materne possono essere privati, pubblici, oppure strutture private convenzionate con il pubblico; possono essere comunali oppure statali, e le rette variano molto a seconda della zona geografica delle caratteristiche della struttura.

Torniamo dunque la domanda: l’asilo nido e la scuola materna sono – o dovrebbero essere – un diritto? Il tema è spinoso perché ad oggi in nessun Paese al mondo ci sono esattamente tanti posti in questo tipo di strutture quanti bambini nati ogni anno: nemmeno nei Paesi più evoluti vi è un 100% di posti virtualmente a disposizione del 100% dei bambini nati. Questo perché le prime due opzioni sono comunque a volte preferite dalle famiglie stesse, e dunque non c’è un effettivo bisogno di approntare un così alto numero di posti.

Il problema però è quando, all’inverso, i posti sono troppo pochi: cioè quando l’offerta non riesce a soddisfare la domanda. È quello che succede in molti Paesi, anche avanzati, ed è per questo che alcuni anni fa si era arrivati, con le indicazioni dette “di Lisbona” a quantificare nella percentuale del 33% il numero minimo adeguato di posti al nido in rapporto ai bambini nati.

Come posso avere il tempo di iscrivermi ad un corso di formazione e migliorare le mie competenze per essere più appetibile sul mercato se devo tenere mio figlio a casa tutto il giorno?

Correva l’anno 2000 quando venne sottoscritto questo obiettivo, nel corso di un Consiglio europeo: in quel momento la copertura, in Italia, stava sotto al 10%. Dieci anni dopo si era passati al 13-15%. Già all’epoca vi erano regioni più virtuose di altre: per esempio Emilia Romagna e Toscana. Entro in un lasso di tempo ragionevole tutti i paesi si sarebbero dovuti dunque adeguare, riuscendo a offrire su base nazionale almeno 33 posti al nido per ogni 100 bambini nati. Il paradosso è che siamo molto lontani ancora da questo obiettivo, in molte zone d’Italia, e anche lì dove obiettivo è stato raggiunto la domanda volte è più alta.

Prova ne siano gli appelli accorati su gruppi di mamme sui social network, che in questi giorni attendono con ansia la pubblicazione delle graduatorie per vedere se i loro figli sono stati accettati.

Ma come funzionano queste graduatorie? Qui sta il nodo focale. Perché ogni genitore che voglia iscrivere uno o più figli ai servizi all’infanzia deve compilare un modulo, e nel modulo tra le altre cose deve indicare pedissequamente che tipo di lavoro svolge, per quante ore, dove e addirittura con quali turni. Sulla base delle risposte contenute nel modulo si assegnano i punteggi, e dai punteggi derivano le graduatorie. Che penalizzano le persone che lavorano part-time e sopratutto quelle disoccupate. Il che è un paradosso, perché molto spesso la condizione di part-time o di disoccupazione è totalmente involontaria, e dunque bisognerebbe che queste persone venissero aiutate a trovare un lavoro a tempo pieno, o un lavoro tout court: e certamente rifiutare l’iscrizione dei figli all’asilo nido alla scuola materna è un freno incredibile alla ricerca di lavoro.

Come posso avere il tempo di iscrivermi ad un corso di formazione e migliorare le mie competenze per essere più appetibile sul mercato se devo tenere mio figlio a casa tutto il giorno? Come posso dedicare del tempo e attenzione alla ricerca attiva di lavoro, mandare i curriculum, andare a sostenere colloqui, se ho il bambino a casa?

Con questo meccanismo di attribuzione dei punti i Comuni si arrogano un diritto molto significativo: quello di decidere chi ha “davvero bisogno” del servizio di asilo nido di scuola materna, e chi può fare senza. Mentre dovrebbe essere solo ed esclusivamente il diretto interessato a poter decidere. Anche perché mandare i figli al nido o alla materna non ha solo la funzione di “scaricare” i genitori dalla gestione del bambino per alcune ore al giorno. Ha anche, in maniera ugualmente importante, la funzione di insegnare ai bambini la socializzazione, offrire loro un contesto diverso da quello familiare in cui apprendere e sviluppare competenze, linguistiche e non solo.

Da Anna Granata, docente di Pedagogia all’università di Torino e autrice dei libri “Sono qui da una vita. Dialogo aperto con le seconde generazioni”, pubblicato nel 2011 e ristampato nel 2015, e “Pedagogia delle diversità. Come sopravvivere un anno in una classe interculturale” uscito nel 2016, entrambi pubblicati dalla casa editrice Carocci, arriva un ulteriore grido d’allarme proprio in questo senso: ad essere escluse risultano molto spesso le famiglie extracomunitarie dove culturalmente, o anche per impedimenti effettivi come la scarsa conoscenza della lingua italiana, le madri che non lavorano. Oppure lavorano in nero, spesso come colf a ore, e non hanno modo di attestare nei moduli che vanno compilati per richiedere l’iscrizione il fatto che effettivamente hanno un impiego.

A essere escluse risultano molto spesso le famiglie extracomunitarie dove culturalmente, o anche per impedimenti effettivi come la scarsa conoscenza della lingua italiana, le madri che non lavorano

“Io non mi do pace. Ho davanti a me una bambina di tre anni che l’anno prossimo non potrà andare alla scuola dell’infanzia” ha scritto Granata qualche giorno fa sulla sua pagina Facebook: “Non parla ancora italiano, come fa correntemente suo fratello che di anni ne ha sei e da tre anni va come tutti i bambini all’asilo. Non lo parlerà verosimilmente neanche nei prossimi tre anni, a casa con la sua mamma egiziana, che per lo stesso motivo non potrà frequentare una scuola di italiano. Parlo da madre di tre figli nei servizi per l’infanzia di Milano, ma soprattutto da ricercatrice in pedagogia impegnata da anni su questi temi”.

Insomma, dice la ricercatrice, escludere un bambino di origine straniera dalla scuola materna (o dall’asilo nido, si può aggiungere) rende ancora più difficile l’integrazione, perché impedisce che nel contesto scolastico il piccolo possa apprendere i rudimenti della lingua italiana, che spesso non vengono insegnati a casa, e quindi si perpetua una esclusione che poi creerà molti problemi quando, arrivato a sei anni, quello stesso bambino dovrà essere inserito obbligatoriamente in prima elementare, e ci arriverà con una competenza linguistica scarsa o addirittura nulla. Perché?

Perché avrà dovuto pagare la condizione di disoccupazione (vera o presunta) di uno o entrambi i genitori, e la conseguente decisione del Comune che quella famiglia non avesse, in effetti, bisogno davvero di usufruire del servizio. Un cane che si mangia la coda, una situazione palesemente ingiusta.

“Per la prima volta che io ne abbia memoria, Milano non garantisce a tutti i propri bambini un posto alla scuola dell’infanzia” scrive ancora Granata, sottolineando il paradosso che ciò accada proprio quando i bambini sono sempre meno, perché siamo “in piena e dilagante crisi demografica”.

In particolare nel Comune di Milano, città dove Granata vive e dove è scoppiato il “caso” dei bambini esclusi, i posti a disposizione non sono pochissimi. Per quanto riguarda i minori di tre anni, i bambini in questa fascia di età residenti a Milano risultano essere 25mila, e i posti messi a disposizione con tariffe comunali sono sono 9.485, quindi una copertura percentuale del 38% dei potenziali beneficiari – un risultato un po’ migliore del minimo indicato vent’anni fa a Lisbona, e meno male, ma certo non ancora sufficiente – suddivisi in 5.381 posti in asili nido direttamente gestiti dal Comune, 667 posti in sezioni primavera (sempre comunali), 1.581 nidi comunali a gestione indiretta (quelle strutture gestite da privati ma convenzionate col Comune, che assegna i posti e determina le tariffe), e infine 1.856 posti nei 126 nidi privati accreditati e convenzionati. In questo caso, spiega l’ufficio stampa del Comune di Milano, “si tratta di posti comprati dal Comune e inseriti nelle graduatorie per le famiglie, quindi con costi e criteri comunali”.

Per chi resta fuori, o per scelta non vuole usufruire per scelta dei servizi comunali, c’è ovviamente poi un’offerta di posti “a libero mercato” in asili nido privati, che applicano orari e tariffe a propria discrezione.

Per i circa 31.500 bambini nella fascia di età 3-6 anni, invece, il Comune di Milano informa che sono circa 23.500 posti messi a disposizione: con una copertura quindi del 75% dell’utenza potenziale.

Bisogna investire il più possibile per mettere a disposizione tanti posti in asili nido e scuole materne quanti ne servono per accogliere chiunque ne faccia richiesta, a prescindere dallo status occupazionale

Ma Milano, oggettivamente, non è una città in cui un bambino su quattro può restare escluso dalla scuola materna. Come, in effetti, non dovrebbe accadere in nessun’altra città italiana. Anche perché a restare fuori spesso sono proprio i bambini delle fasce più deboli della popolazione.

I posti in meno a disposizione quest’anno sono dovuti, pare, al fatto che il Comune abbia “ritenuto opportuno creare classi più piccole nel caso in cui si certifichino bambini disabili in corso d’anno” scrive ancora Granata. Cioè: tengo vuoti dei posti nella eventualità, ipotetica, che durante l’anno qualche famiglia di bimbo disabile richieda al Comune l’iscrizione tardiva del figlio. Oppure, seconda ipotesi, che durante l’anno a un bambino già iscritto venga certificata una qualche disabilità, e si renda dunque necessario fornirgli un servizio di assistenza più intensivo, utilizzando un educatore ad hoc.

Ma penalizzare un gruppo debole (i figli di disoccupati e in particolare di immigrati) per non penalizzare un altro gruppo debole (i bambini con disabilità) ha un che di grottesco.

E le conseguenze dell’esclusione dei bimbi stranieri dagli asili nido e ancor più dalle scuole materne ricadranno, attenzione, anche sui figli delle famiglie italiane: perché, ricorda Granata, “quei bambini rimasti fuori dalle graduatorie tra tre anni sono chiamati come tutti gli altri nella scuola dell’obbligo. Sarà un problema per loro, ma sarà un problema per tutti, se non sapranno parlare italiano, vivere le regole della vita comune, seguire la sequenza di un compito loro affidato… tutte competenze che acquisiscono con estrema facilità tra i 3 e i 6 anni”.

Nella lunga e partecipata discussione avvenuta per giorni sul wall Facebook di Granata spicca l’intervento del giornalista Stefano Pasta, che aggiunge un elemento tecnico: “Con la normativa vigente i bambini non residenti sono ultimi nelle graduatorie delle scuole dell’infanzia e dei nidi, spesso non riescono più ad andare all’asilo”. Il giornalista entra nel dettaglio: “Per gli stranieri comunitari, ad esempio romeni, non residenti vuol dire i figli dei senza casa o dei senza lavoro; per gli stranieri extraUe vuol dire chi ha problemi di documenti (permesso di soggiorno o altri documenti) oppure non ha una casa dove prendere la residenza. Spesso quindi i non residenti sono bambini che crescono in famiglie segnate da fragilità o ostacoli, in molti casi ‘poveri’” conclude Pasta, chiedendosi e chiedendo a tutti: “Siamo sicuri di voler continuare a mettere questi bambini in fondo alla lista e, nei fatti, a tenere fuori dall’infanzia e dal nido diversi di loro?”

Certo, da parte sua Milano come ogni altra amministrazione comunale può addurre una motivazione più che concreta: ogni educatore di asilo nido e di scuola materna ha un costo, anche considerevole, e dunque ogni posto in più vuol dire un esborso maggiore per quel Comune. E’ in sostanza quello che ha risposto Laura Galimberti, assessora all’Educazione e Istruzione del Comune di Milano, alla discussione su Facebook: “La scuola dell’infanzia paritaria comunale a Milano è un’eccellenza riconosciuta, anche per l’accoglienza dei bimbi più fragili. Quest’anno per esempio per il costante aumento dei bimbi con certificazione di disabilità acquisite anche in corso d’anno, sono state obbligatoriamente alleggerite tutte le sezioni. Non ci sono pertanto “posti liberi” se non quelli che poi renderanno possibile lo scorrimento delle graduatorie”.

Galimberti ammette esplicitamente che “sono purtroppo aumentate le liste di attesa” e ricorda però che i criteri di assegnazione dei punteggi sono frutto di “condivise elaborazioni con rappresentanze [di] genitori e scuole”. E se questi criteri non andassero più bene? “Modificare i criteri è possibile ma complesso” scrive ancora Galimberti: “A Milano tanti genitori lavoratori non hanno rete parentale. I bimbi di origine straniera sono oltre il 25% (media cittadina). Sono rappresentate 110 nazionalità con prevalenza, in ordine, di egiziani, filippini, cinesi, peruviani. I bimbi rom o altri casi “senza residenza” vengono inseriti per il tramite dei servizi sociali. Il Comune di Milano offre un servizio gratuito a quasi il 90% dei bimbi che scelgono la scuola pubblica, un caso unico in Italia in tali percentuali. Lo Stato, che paga le scuole con la fiscalità generale, offre un servizio a circa il 10% dei bimbi. Sarebbe interessante un impegno del Ministero per ampliare un servizio così utile per la crescita e così richiesto”.

Ma anche se lo Stato si rivela avaro, e non vuole mettere risorse su questo aspetto, i Comuni non possono e non devono sottrarsi: specie quelli come Milano che fanno dell’accoglienza, dell’integrazione, dell’inclusione propri punti di forza. Come sempre accade, i soldi in realtà ci sono: il cuore della politica sta proprio nel deciderne la destinazione. Scegliere, tra varie spese pubbliche, quelle che sono più importanti e quelle che lo sono di meno. Ecco, è ora di dire che le spese per i posti in scuole materne e asili nido sono tra le più importanti, e che dunque bisogna investire il più possibile per mettere a disposizione tanti posti in asili nido e scuole materne quanti ne servono per accogliere chiunque ne faccia richiesta, a prescindere dallo status occupazionale.

A questo punto, perché la denuncia non resti sulla carta, occorre rimboccarsi le maniche e fare Comune per Comune, territorio per territorio, magari partendo proprio da Milano, proposte per aggiornare i criteri di assegnazione dei posti e adeguarli alle esigenze di oggi, da una parte, e fare pressione perché vi siano più risorse economiche – e dunque più posti tout court – per i servizi all’infanzia. In tutta Italia.

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