Poco severa, niente merito: e gli italiani non ci stanno

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di Giorgio Chiosso,  il Sussidiario, 12.12.2017

 Un recente sondaggio Eumetra commissionato dal Gruppo di Firenze mette in evidenza un forte scarto tra sistema scolastico e aspettativa sociale.

Un inquietante sentimento si aggira da tempo tra le famiglie, gli studenti e nella società civile: l’idea che “la scuola non serva” e che essa sia ormai utile solo o prevalentemente come un grande ammortizzatore sociale per contenere la disoccupazione dei laureati. Si tratta di uno scoramento inedito nella nostra storia scolastica, un passaggio rischioso verso la perdita di credibilità di una fondamentale istituzione. Il declino della scuola è l’anticamera del declino di una società.

A rafforzare questi sentimenti giungono i risultati di un’inchiesta sulla percezione della scuola tra genitori, insegnanti e giovani, mondo del lavoro. La ricerca, condotta dall’Istituto Eumetra di Milano, è stata commissionata dal “Gruppo di Firenze”, un’associazione fiorentina di insegnanti e intellettuali (ne fanno parte tra gli altri Ernesto Galli della Loggia, Lucio Russo, Giulio Ferroni, Piero Craveri) impegnati a rilanciare nella scuola “merito e responsabilità”. Secondo questa indagine che ha coinvolto un significativo campione della popolazione adulta (tra gli intervistati più del 60 per cento ha rapporti stretti per varie ragioni con la vita scolastica) esiste un marcato scarto tra ciò che la società si attenderebbe dalla scuola e la realtà offerta dal sistema d’istruzione.

Qualche dato. I due terzi degli intervistati ritengono “la scuola troppo permissiva riguardo alla condotta degli allievi” e giudicano in modo negativo la recente abolizione della bocciatura per l’insufficienza in condotta. Il 59 per cento dichiara che “la scuola italiana non è sufficientemente esigente per ciò che riguarda la preparazione degli alunni”, con un’accentuazione significativa (73 per cento) tra i giovani tra i 18 e i 24 anni di età, che hanno un’esperienza recente e diretta della scuola.

Secondo gli intervistati i docenti non solo sarebbero propensi a “lasciar correre” e a prestare scarsa attenzione alla qualità della preparazione, ma addirittura sarebbero responsabili di falsare gli esiti delle prove di profitto, per esempio lasciando copiare (a giudizio del sociologo Marcello Dei, che sull’argomento ha scritto libri e raccolto dati a tappeto, “due studenti su tre copiano e l’83 per cento degli adolescenti non li condanna”).  Il 52 per cento degli interpellati afferma infatti di essere a diretta conoscenza del fenomeno del cosiddetto “aiutino” durante gli esami di terza media e di maturità. La denuncia è ancora più severa (55 per cento) da parte di chi è direttamente coinvolto nella vita scolastica. Per ovviare alle lacune della preparazione il 75 per cento ritiene che si dovrebbero rafforzare i compiti e lo studio casalingo.

Anche in materia di comportamento i giudizi sono molto severi. Secondo quasi il 70 per cento delle risposte la condotta scolastica è sottovalutata e la scuola sarebbe troppo permissiva con una scarsa o nulla attenzione per le violazioni delle regole scolastiche. Le conseguenze pedagogiche ed emotive sarebbero particolarmente gravi: isolamento di chi in classe cerca di contrastare i comportamenti scorretti; danni seri alla preparazione degli studenti; progressivo scadimento del senso civico; stress crescente tra gli insegnanti.

La scuola, questa la conclusione della ricerca, avrebbe rinunziato da tempo a rappresentare un luogo del merito e della responsabilità per entrare in un’ottica meramente socializzatrice e assistenziale. Gli insegnanti cresciuti per ampia parte nel clima del ’68 non crederebbero nel proprio ruolo educativo e nella propria funzione culturale oltre a mancare spesso della capacità didattica e della sensibilità relazionale. Per risalire la china ci vorrebbero provvedimenti drastici ed anni di lavoro.

Il lettore avrà notato che nel presentare i principali dati dell’indagine voluta dai docenti fiorentini si è fatto largo ricorso al verbo impiegato nel modo condizionale. Questa scelta non è dettata da diffidenza verso la sostanza dell’indagine, ma perché è obiettivamente difficile raccogliere entro cifre statistiche una realtà assai variegata, mobile e differenziata qual è quella scolastica. Non bisogna, inoltre, dimenticare i luoghi comuni che accompagnano le questioni dell’istruzione spesso condizionate dal nostalgico ricordo del passato.

Fatte queste precisazioni occorre comunque riconoscere che dalla lettura della ricerca emergono informazioni utili a comprendere alcune delle ragioni della sfiducia nella scuola attuale: debolezza culturale, permissivismo, rinuncia di una parte dei docenti a svolgere una funzione educativa, soppressione del merito a vantaggio di una generica inclusività e, possiamo aggiungere, perdita di valore sociale del titolo di studio. Di fronte a un quadro del genere segnato da un marcato scarto tra la scuola ufficiale e scuola percepita non stupisce la scorciatoia di chi è ormai giunto alla determinazione che “la scuola non serve”. Per fortuna c’è la scuola reale che forse sta a metà strada tra l’una e l’altra.

Dalla ricerca giunge un serio invito alla politica a compiere un bagno nella realtà senza letture corporative ripiegate sugli interessi dei docenti, senza indulgenze rispetto al profitto e alla condotta e senza cedimenti sul fatto che la scuola è la prima impresa culturale del Paese. L’auspicio è che siano queste le basi della politica scolastica della prossima legislatura. Tutto il resto sono chiacchiere.

A Tullio De Mauro, il noto linguista ed ex ministro dell’Istruzione, si deve un monito da tenere presente più che mai e cioè che una società non può permettersi il lusso di crescere due generazioni di ignoranti.

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