di Andrea Ragazzini, Il Gruppo di Firenze, 23.4.2020
– Sulla didattica a distanza l’Anp ha pubblicato un documento in cui auspica che la valutazione sia solo formativa. Una ricetta astratta e illusoria.
I dati diffusi dall’Istat il 6 aprile ci dicono che la didattica a distanza non ha raggiunto il 33,8% delle famiglie, quelle che non hanno in casa né un computer né un tablet. La percentuale si alza nel Sud al 41,6%. Se si considera che probabilmente in molte di queste famiglie i figli in età scolare sono più di uno, si deve ritenere che la percentuale degli studenti che non hanno usufruito della Dad sia ancora più elevata.
Non essendo affatto da escludere che a settembre non ci siano ancora le condizioni per un ritorno in classe, questa situazione può essere migliorata solo a partire da un’indagine molto approfondita del ministero, scuola per scuola, sull’attività di questi mesi: numero delle classi e degli allievi collegati, carenze tecnologiche, modalità con cui gli insegnanti hanno realizzato la Dad e relative ricadute didattiche.
Fin da ora però c’è già chi si mostra entusiasta di questa esperienza, non perché abbia gli elementi per valutarne positivamente i risultati, ma perché nella Dad vede la possibilità di affermare una lungamente auspicata rivoluzione didattica, soprattutto riguardo alla valutazione. Fra questi l’Associazione nazionale presidi, che ne scrive in un documento pubblicato sul proprio sito web (La posizione dell’ANP sulla didattica a distanza e sulla relativa valutazione degli apprendimenti).
La tesi è che, risultando sostanzialmente impraticabili le modalità di valutazione della didattica in presenza, gli insegnanti saranno in qualche modo costretti a prendere le distanze dalle pratiche definite “sanzionatorie” che la caratterizzano e a mettere al centro del proprio lavoro esclusivamente la “valutazione formativa”.
Nell’auspicare una rivoluzione pedagogica, si è evidentemente sentita la necessità di screditare l’idea di valutazione che gli estensori del documento ritengono vigente nella scuola italiana, anche a costo di forzature concettuali e linguistiche. Da questo punto di vista il documento della Anp non lascia margini di dubbio: “dovremmo tutti impegnarci – a prescindere dall’emergenza – affinché la scuola (…) sia percepita come ambiente di apprendimento e non come luogo del giudizio”; si criticano “gli strumenti valutativi tradizionali (compiti in classe e interrogazioni orali) definiti “di tipo non oggettivo” e i “criteri non oggettivi e di tipo impressionistico (sic)”; “si preferisce di gran lunga sanzionare gli errori (ciò che l’alunno non sa) invece di valorizzare gli aspetti positivi (quello che l’alunno sa o sa fare)”; e ancora: “Questa situazione è insoddisfacente perché la valutazione è caratterizzata da soggettività e autoreferenzialità”.
Sembra quindi chiaro che per l’Anp la valutazione nella scuola debba essere esclusivamente formativa e mai cristallizzarsi in un voto, orientandosi “verso una vera valorizzazione dello studente come persona comunque competente” (corsivo nostro). Il probabile traguardo implicito in questi ragionamenti (esplicitato invece da documenti di altre associazioni) è l’abolizione del voto e delle bocciature.
Sembrano dunque trovare nuovo vigore dall’attuale emergenza ricette come questa che circolano da molti anni e che promettono la definitiva affermazione di una scuola in cui le possibilità di costituire un vero “ascensore sociale” si allontaneranno ulteriormente fino a scomparire. Il documento dell’Anp nega di fatto, nelle indicazioni che dà ai suoi associati, l’importanza della certificazione degli effettivi livelli di apprendimento degli studenti, secondo una visione pedagogica che ritiene centrale la figura dello studente nella prassi didattica e quindi considera prioritario il diritto dei giovani alla piena inclusione scolastica e al successo formativo: “la valutazione non deve essere altro che uno strumento di rilevazione del progresso di apprendimento inteso come maturazione personale. Non è essa stessa dunque la finalità del sistema”.
Si tratta di ricette astratte e illusorie che prescindono del tutto da due princìpi fondamentali sia dal punto di vista educativo che didattico: il principio di realtà e il principio di responsabilità. Così come molti genitori nei confronti dei propri figli, si pensa che compito degli insegnanti sia proteggere gli allievi da qualsiasi frustrazione o delusione, anziché aiutarli a confrontarsi con i limiti che tutti abbiamo e a imparare dagli inevitabili insuccessi, con il risultato di crescere delle persone disarmate di fronte alle difficoltà della vita o degli eterni narcisi sempre in credito col mondo. Dice Kipling nella poesia “If”: “Se sei capace di incontrare il Trionfo e il Disastro e trattare questi due impostori esattamente nello stesso modo […..] tua è la terra e tutto ciò che contiene, e – che è molto di più – sarai un Uomo, figlio mio!”.
Impossibile poi trovare nel documento un qualsiasi accenno alla necessità che uno studente faccia la sua parte nel rapporto didattico con il personale impegno nel lavoro in classe e nello studio, anche in quelle discipline che gli risultano più ostiche. Ferma restando ovviamente la primaria responsabilità della scuola e degli insegnanti nel creare le migliori condizioni possibili per l’apprendimento.
Si può dire insomma che manca del tutto in questo documento – ed è la regola da molti anni in tante riflessioni sulla scuola – l’idea che educare i figli serve a introdurli in un ambiente sociale. Per dirla con Hannah Arendt, i genitori “con l’educazione si assumono la responsabilità nei due ambiti, a livello dell’esistenza e della crescita del bambino e a livello della continuazione del mondo”.
In altre parole, l’educazione, oggi identificata con le esigenze del singolo nuovo individuo, serve anche a tutelare il mondo in cui viviamo. A questo scopo libertà e responsabilità devono essere inscindibili nella pratica educativa. Spesso si parla di legalità, di rispetto dell’ambiente o della donna; ma solo un costante allenamento all’incontro con i limiti, al rispetto delle regole e degli altri può far sì che i piccoli umani, naturalmente egocentrici, diventino adulti maturi.
La didattica dovrebbe quindi riflettere l’uguale importanza dell’interesse dell’allievo a sviluppare i suoi talenti e quello della collettività ad accogliere nuovi cittadini preparati e responsabili. Di qui la necessità di certificare gli effettivi livelli di apprendimento e anche l’acquisizione di un comportamento corretto, cioè consapevole dei propri diritti e doveri.
C’è bisogno quindi sia della valutazione “sommativa”, sia di una valutazione formativa che rilevi i progressi e incoraggi gli studenti, ma indichi anche errori e comportamenti sbagliati. Si dovrebbe cioè affiancare al “codice materno”, quello della cura e della protezione (prevalente nei primi anni di scuola), dosi crescenti di “codice paterno”. Che significa parlare all’occasione con franchezza di preparazione inadeguata o di comportamento scorretto, essere meno disponibili ad “abbassare gli ostacoli”, aiutare l’allievo ad assumersi le sue responsabilità, a capire quando adattarsi alle situazioni e quando farsi valere.
L’insegnante deve saper diventare, in poche parole, un rappresentante della realtà di fronte ai propri allievi.
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Quella valutazione che “educa” giovani narcisi ultima modifica: 2020-04-24T03:29:59+02:00 da