La stima è stata resa pubblica dall’Ufficio parlamentare di bilancio ed è legata a varie ragioni: dalla minore quantità di contributi versati all’effetto coefficienti di trasformazione fino alla possibilità che sia minore la parte calcolata con il metodo retributivo rispetto a quella calcolata con quello contributivo. Ad essere penalizzati di più, inoltre, sarebbero coloro che anticipano anche di cinque anni e possono vantare giusto 38 anni di contributi.
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Ecco perché l’assegno si riduce
In sintesi, per il presidente dell’Upb Giuseppe Pisauro, non considerare questi aspetti farebbe saltare i conti. Secondo l’Upb, infatti, il problema è legato al fatto che il sistema pensionistico non è più sganciabile dall’aspettativa di vita. Ed anticipare di quattro anni l’uscita dal lavoro non può risultare indolore.
L’Ansa ha riassunto le ragioni, prodotte dall’Ufficio parlamentare di bilancio, che porterebbero all’assegno ridotto, conseguente principalmente al fatto di aver anticipato il pensionamento e quindi gli anni in più di trattamento ricevuto:
MENO ANNI DI CONTRIBUTI VERSATI: se si esce con la quota 100 pura (62 anni di età e 38 di contributi) si anticipa l’uscita dal lavoro rispetto all’età di vecchiaia (67 anni nel 2019) e alla pensione anticipata attuale (42 anni e 10 mesi di contributi se resteranno bloccati anche l’anno prossimo come annunciato dal Governo, sennò 43 e tre mesi) di circa cinque anni. In questi anni non si verseranno contributi che quindi non andranno a rimpolpare il montante e quindi la pensione futura.
COEFFICIENTI DI TRASFORMAZIONE: per calcolare l’assegno il montante contributivo viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione che è tanto più alto più è alta l’età alla quale si accede alla pensione. Nel 2019 è prevista una riduzione per cui a 62 anni il coefficiente sarà a 4,790 (è 4,856 fino alla fine di quest’anno) mentre quello di uscita a 67 anni sarà a 5,604. Il montante più basso quindi si moltiplicherà per un coefficiente più basso riducendo l’assegno.
PARTE CONTRIBUTIVA PIU’ CONSISTENTE RISPETTO ALLA RETRIBUTIVA: se si esce con quota 100 pura vuol dire che si hanno 38 anni di contributi e si è cominciato a lavorare nel 1980 quindi non si rientra tra coloro che a fine 1995 avevano già 18 anni di contributi. Chi ha cominciato a lavorare dal 1978 in poi avrà calcolata con il sistema retributivo (più generoso) solo la parte tra il 1978 e il 1995 mentre per i contributi versati dal 1996 in poi ha il sistema contributivo. Anticipando la pensione avrà una parte più consistente di montante che subisce il calcolo svantaggioso con il coefficiente più basso.
MENO SCATTI DI ANZIANITA’: Anticipando l’uscita si ferma anche la progressione della retribuzione, essenziale per il montante contributivo. Gli ultimi anni della carriera sono quelli nei quali, soprattutto nel pubblico, in genere si ricevono i maggiori aumenti, aumenti che non si avranno se si decide di andare in pensione anticipata.
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I dubbi di Confindustria sul turn over
L’analisi tecnica, però, continua a cozzare con le parole degli esponenti di Governo. Ad iniziare dal sottosegretario al lavoro, leghista, Claudio Durigon, secondo il quale non ci saranno tagli: “chi uscirà con quota 100 avrà una rata pensionistica basata sugli effettivi anni di contributi e non anche sugli anni non lavorati”.
Traballa anche, osserva questa volta il presidente degli imprenditori Vincenzo Boccia, il ragionamento per cui la nuova riforma previdenziale garantirebbe il turn over e quindi l’occupazione giovanile: difficile che “i benefici siano automatici”.
Entro poche ore, inoltre, arriverà anche la risposta a Bruxelles. E non sarà ininfluente, visto che alle ore 20 del 13 novembre è anche stato convocato un Consiglio dei ministri che potrebbe essere anticipato da un vertice con Conte, i vicepremier e il titolare del Tesoro.
Un altro fattore che propende per la pensione light è però quello della platea potenziale di beneficiari di quota 100 o di 42 e 10 mesi: solo per il 2019 sarebbe di “437.000 contribuenti attivi” e quindi se uscissero tutti si registrerebbe un “aumento di spesa lorda per 13 miliardi”. Il doppio di quanto quantificato e coperto dal Governo con la legge di bilancio.
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Salvini: nessuna penalizzazione
Ad ammetterlo è stato anche il vicepremier Matteo Salvini: “Calcoliamo che non tutti andranno istantaneamente in pensione, anche perché ad esempio nel pubblico impiego dovremo studiare degli scaglioni altrimenti rischierebbero di bloccarsi alcuni settori”.
Nella scuola, comunque, c’è poco da scaglionare visto che la “finestra” è giù unica e immodificabile: il Governo può solo sperare che una parte degli 80 mila docenti e Ata coinvolti decida di desistere per il sacrificio troppo alto sull’assegno pensionistico, peraltro già penalizzato dagli stipendi più bassi in Europa dopo la Grecia e i Paesi dell’Est.
Poi, però, Salvini è tornato a dire che sta comunque smontando “pezzo per pezzo la Fornero, se serviranno più soldi li troveremo”.
E anche a negare i tagli all’assegno di pensione: “Non ci saranno penalizzazioni su quota 100 per le pensioni. Sì comincerà all’inizio del prossimo anno. Chi vuole ha il diritto di recuperare la propria vita, i propri contributi, la propria pensione. Chi riterrà di rimanere, potrà rimanere”.
Furlan (Cisl): il problema è che le donne non arrivano a 38 anni
Anche i sindacati non sembrano credere all’uscita anticipata senza decurtazione alcuna: quota 100 “è una possibilità per i lavoratori, non un obbligo. Ognuno farà le sue scelte”, ha detto la segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan a margine di un convegno sul riformismo.
“Piuttosto il tema – ha aggiunto – sarà come garantire i 38 anni di contributi necessari per quota 100 alle donne che difficilmente li raggiungono. Abbiamo fatto una proposta per far valere un anno di contribuzione per ogni figlio”.
Furlan ha parlato anche dell’importanza della pensione di garanzia per i giovani che rischieranno di arrivare ad un’età anziana con una pensione troppo bassa. Il tema, gira che ti rigira, è sempre quello.
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