Roars, 12.2.2019
– Abbiamo pubblicato ieri i documenti segreti, di cui inesorabilmente sembra avvicinarsi la formale adozione, con i quali sarà perfezionato il disegno dell’autonomia regionale differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Ognuno ha potuto finalmente toccare con mano cosa implicherà l’attuazione di questa autonomia differenziata sul mondo della Scuola e su quello dell’Università e della Ricerca scientifica nelle tre regioni interessate e, indirettamente, e per effetto del correlativo taglio delle risorse destinate ad alimentare la fiscalità generale dello Stato, sui restanti sistemi regionali italiani. Ma non si tratta di un colpo di Stato. Siamo stati, infatti, spettatori inerti e fin qui in larga misura inconsapevoli di una dinamica riformista che è partita da lontano. Vediamo perché le bombe ad orologeria, se qualcuno le confeziona con mani tecnicamente sapienti e poi ne cura la manutenzione, prima o poi sono destinate a deflagrare. Anche a distanza di molti anni dal loro confezionamento. E senza perdere nemmeno un po’ del loro potenziale distruttivo.
In un illuminante articolo apparso su Il Sussidiario, Mario Barcellona mette a nudo cause ed effetti del disegno dell’autonomia differenziata che sta per abbattersi sul mondo della Scuola e dell’Università e della Ricerca scientifica di questo nostro sempre più diseguale Paese.
Osserva Barcellona:
Di questa questione, che concerne, innanzitutto, l’autonomia differenziata di Lombardia e Veneto, le opposizioni non parlano affatto, e pour cause dato che proprio esse ne sono all’origine. Essa risale alla sciagurata riforma dell’art. 116 Cost. voluta nel 2001 da D’Alema, che prevedeva la possibilità che lo Stato contrattasse con singole Regioni il trasferimento di competenze ad esso riservate (soprattutto istruzione e sanità) ed all’indecente “pre-intesa” proditoriamente stipulata dal governo Gentiloni ad esecutivo ormai praticamente scaduto con la Lombardia ed il Veneto. Perché quel governo l’abbia stipulata non si sa: per una ingenua captatio benevolentiae dell’elettorato del Nord? per colpevole collusione con un establishment che nel settentrione ha in larga prevalenza le proprie radici ed i propri interessi e che, con sguardo miope, si aspetta di ricavarne benefici economici diretti o indiretti? o solo perché la pattuglia berlusconiana guidata da Verdini, di dritto o di storto, si è fatta valere? Sta di fatto che la Lega, comprensibilmente, di questa “pre-intesa” ha preteso l’inserimento nel “contratto di governo” e che il M5s vi ha acconsentito: si può solo sperare per palese e gravissima insipienza. La questione si è anche amplificata per l’analoga iniziativa dell’Emilia-Romagna e, ora, per le similari richieste della Liguria.
Barcellona prosegue, confezionando una non meno lucida analisi tesa a evidenziare i motivi per i quali la foglia di fico offerta dalla possibilità di fissare standard minimi nazionali non appare minimamente in grado di arginare la portata dirompente che questa autonomia differenziata avrà sui comparti nei quali essa sarà attuata, fra cui, per quanto più sta a cuore i lettori di ROARS, la Scuola, l’Università e la Ricerca scientifica.
Il tema cruciale del federalismo fiscale – messo alla porta dal popolo italiano in occasione del Referendum del 2006, quando si prevedeva la devoluzione a TUTTE le regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie come organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale, assistenza e organizzazione sanitaria – finirà per rientrare dalla finestra nell’agenda del nostro Paese con le intese. E per giunta rientrerà selettivamente, interessando solo le tre regioni che da sole producono più di un terzo del PIL nazionale.
“Se pago di più devo avere di più” è il mantra che getta alle ortiche o, come più compostamente scrive Barcellona, “mina alle fondamenta” il senso centripeto dello stare assieme che la nostra Carta Costituzionale sancisce e dovrebbe tutelare, eleggendo il dovere di solidarietà politica, ECONOMICA e sociale (art. 2) a piattaforma dalla quale risollevare, ricostruire e far prosperare un Paese annientato dalla guerra e dal fascismo. O immaginando che ogni individuo associato alla comunità nazionale non veda trasformato il contenuto effettivo dei suoi diritti fondamentali (alla salute e all’istruzione, in primis) in ragione del luogo di quella comunità nel quale abbia avuto la ventura di nascere o (sopra?)vivere (uguaglianza sostanziale, art. 3). O proclamando l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, nel cui ambito e nel cui imprescindibile rispetto riconoscere e dare sorvegliato spazio all’autonomia (art. 5). O, infine, evitando di imprimere un’esiziale connotazione territoriale all’uguaglianza nella contribuzione fiscale, che in Costituzione conosce il solo metro della capacità contributiva (art. 53), e alla quale con questa autonomia regionale differenziata si finirà per attribuire una inevitabile variabilità territoriale.
Denunciata la bomba destinata a far brandelli della nostra sempre più traballante coesione nazionale, l’analisi di Barcellona prosegue in una riflessione che, dando fondo a un’ammirevole e insospettata riserva di speranza residua, guarda all’attuale quadro politico e auspica ravvedimenti dell’ultim’ora (che per la verità sembrano di difficile realizzazione proprio guardando chi si agita in quel quadro politico), non senza preoccuparsi di mettere in guardia lo stesso NORD dai perversi effetti lungolatenti che, una volta deflagrata, la bomba potrà avere sugli stessi destini di prosperità sognati dalla parte già ricca del paese e senza trascurare di mettere in luce, con onestà politica e intellettuale, le indubbie responsabilità che il SUD, le sue genti e la sua classe dirigente hanno avuto nel dipanarsi di questo processo. A questa analisi rinviamo ancora il lettore che se ne voglia meritoriamente impossessare.
Qui mette conto solo ricordare chi ha confezionato la bomba e chi, più recentemente, ne ha azionato il dispositivo di innesco.
Perché Salvini aveva ancora negli occhi il luccicante ricordo della sua promettente comparsata da auto-dichiaratosi nullafacente a il Pranzo è servito, quando, il 30 giugno 1997, la Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, durante il primo governo Prodi, presentò alle Camere il testo, approvato dalla Commissione stessa, di un progetto di legge costituzionale dal titolo: “Revisione della parte seconda della Costituzione”.
Caduto il governo Prodi e varie vicissitudini dopo, il 18 marzo 1999, il Presidente del Consiglio dei Ministri D’Alema, che prima di essere tale era stato Presidente della Commissione bicamerale, presentò al Parlamento, insieme al Ministro per le riforme istituzionali pro-tempore Giuliano Amato, una nuova proposta di legge costituzionale recante: “Ordinamento federale della Repubblica”. La Prima Commissione Affari Costituzionali della Camera, in sede referente, ne iniziò l’esame il 14 aprile 1999. Presto si convenne di delegare la elaborazione del testo a un Comitato ristretto, che nella seduta del 13 ottobre 1999 presentò alla Camera un nuovo testo unificato dei testi e degli emendamenti esaminati. L’Assemblea dei Deputati della XIII legislatura a maggioranza di centro sinistra esaminò la p.d.l. costituzionale, nelle linee generali, dal 12 al 26 novembre 1999. Dopo una lunga interruzione, durante la quale al governo D’Alema subentrò il governo Amato (26 aprile 2000-11 giugno 2001), l’esame degli articoli ebbe inizio il 19 settembre 2000 e si concluse, con l’approvazione, il 26 settembre 2000. Il provvedimento passò al Senato. Il 3 ottobre 2000 la Commissione ne iniziò l’esame e lo concluse il 9 novembre 2000. Il 17 novembre 2000 l’assemblea del Senato approvò, senza modifiche, il testo di riforma, rimasto quello che la Camera dei deputati aveva licenziato. In seconda deliberazione, come previsto dalla Costituzione, l’assemblea della Camera, dopo le sedute del 23 e del 28 febbraio 2001, lo approvò a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Lo stesso fece a spron battuto il Senato l’8 marzo 2001, a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Sempre secondo l’art. 138 Cost. il testo della legge costituzionale fu pubblicato sulla G.U. n. 59 del 12 marzo 2001, in attesa del referendum confermativo che venne prontamente richiesto da 102 Senatori dell’opposizione e 77 Senatori della maggioranza di centro-sinistra.
Il 7 ottobre 2001 gli italiani furono chiamati a decidere se confermare o meno la modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione della Repubblica Italiana. Essendo un referendum confermativo (e non abrogativo), la consultazione non richiedeva la partecipazione al voto della maggioranza degli iscritti alle liste elettorali per essere valida. Votarono in pochissimi: poco più di un terzo degli aventi diritto nel corpo elettorale. Quasi i due terzi dei voti validi dissero Sì; poco più di un terzo dissero No.
Ne risultò la modifica con la quale oggi combattono gli studenti di giurisprudenza al primo anno (e che nelle sue altre propaggini ha turbato i sonni dei giudici della Consulta, dacché è stata sancita).
Come è stato ricordato nel post di ieri, le “Pre-intese Gentiloni” (cui purtroppo non può riconoscersi il valore solo informale avuto dal “Patto Gentiloni“), che hanno dato concretezza alla inedita possibilità dischiusa dalla riforma costituzionale firmata dal centro-sinistra e dai suoi tecnici, e confermata (occorre ricordarlo) dagli elettori italiani, sono state amabilmente concluse dal Governo Gentiloni, al tempo del suo mesto dissolversi nella primavera dell’anno scorso, anche se, dando prova di grande acume politico per i dettagli, il Premier lasciò che nelle foto ufficiali della storica firma venisse ritratto solo un sottosegretario bellunese del suo governo.
Esse hanno dato principio di attuazione e hanno infuso un inequivoco atto di volontà politica alla possibilità prefigurata dai padri costituenti minori del 1997-2001, ovvero che:
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
Che fare? Gli oscuri presagi si moltiplicano. Non meno cupamente, leggendo la riflessione finale di Barcellona sembrano potersi vaticinare due opzioni.
Continuare – almeno chi può – a mettere al sicuro i propri figli, ponendoli in condizione di salvarsi da soli dopo un periodo di formazione in un altrove che non sia il SUD.
Cominciare a fare incetta di gilè (scriviamolo in italiano) di un qualche colore prima di tentare disperate sortite di piazza spontanee e senza nemmeno il Masaniello di turno, sapendo che in Italia troppi Masanielli sono passati invano e che nemmeno del colore di quell’indumento sembra oggi potersi avere contezza.
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Regionalismo differenziato: l’antefatto e i suoi protagonisti ultima modifica: 2019-02-13T04:10:57+01:00 da