di Stefano Quaglia, il Sussidiario, 27.2.2025.
Il nostro Paese è rimasto l’unico dove la cultura classica è di casa. Ma perché è davvero importante studiare latino, greco o imparare a memoria? (1)
Per l’occasione il relatore austriaco si espresse positivamente sulla proposta del ministro Valditara, con una saggia e acuta osservazione: sicuramente vi sarà qualcuno – disse – che sosterrà che la proposta nasce da motivazioni ideologiche, da un desiderio, ritenuto di destra, di ridare agli studi classici quel vigore che certe scelte, più demagogiche che democratiche, hanno in passato ridotto o, persino, fiaccato del tutto.
Ma noi classicisti non dobbiamo cadere nella trappola dello scontro ideologico. Prendiamo invece il buono di questa proposta, impegnandoci a valorizzarla anche in una prospettiva di diffusione democratica dello studio di questa lingua, dalla quale tutti, anche i contemporanei, possono trarre sicuri benefici culturali ed educativi.
Naturale che un classicista si esprimesse in tal modo, ma ha colpito un altro suo rilievo. Egli osservava che di fatto la cultura classica è il tratto, si può dire naturale, della cultura italiana.
“Forse non vi rendete conto che l’Italia, dove ancora si insegna bene il latino (e perfino il greco) nel liceo classico e tutto sommato ancora seriamente in una buona parte del liceo scientifico e del liceo delle scienze umane, è ormai il solo Paese al mondo dove la cultura classica è ancora di casa nella formazione dei giovani e che questo, non altro, costituisce davvero quello che possiamo chiamare il Made in Italy”.
E dunque dobbiamo farcelo dire dagli amici degli altri Paesi che abbiamo un patrimonio del quale, se non vogliamo essere né fieri, né orgogliosi, dobbiamo comunque essere almeno consapevoli e saggi custodi. Il ventunesimo secolo è iniziato ormai da venticinque anni.
Le cose sono cambiate. Il mondo ci è arrivato in tasca. Non possiamo più permetterci di esaltarci per la fòrmica e le sedie di finta-pelle, come negli anni Sessanta, quando le famiglie povere italiane, cominciando ad assaporare una ricchezza imprevista e repentina, pensarono di affermare il loro nuovo status bruciando i mobili di legno che avevano ereditato dalle generazioni precedenti e sostituendo le suppellettili storiche con quella plastica dalla quale oggi non sappiamo più come liberarci.
Orbene, su queste premesse credo sia giunto il momento di una riflessione sine ira ac studio su quale sia il senso di una ripresa sia dello studio del latino, sia dell’apprendimento a memoria. Già, perché le due cose sono fra loro intimamente legate.
Se a chi porta ancora gli occhiali del ventesimo secolo le proposte del ministro sembrano rinviare a una cultura vecchia e superata, chi, invece, guarda in faccia la realtà di oggi e vede quali sono le conseguenze di una insensata delega cognitiva agli strumenti digitali, ritiene che l’energia culturale e la competenza mnemonica dei soggetti che utilizzeranno l’intelligenza artificiale siano i presupposti perché questo straordinario ausilio rimanga tale e non trasformi in strumenti coloro che credono di utilizzarla.
Incredibile, davvero, come la libertà dello spirito passi dal latino, come l’autonomia della dimensione umana, rispetto alla pervasività delle utilitiesdigitali, si fondi sulla essenziale consapevolezza etica del pieno dominio sulla sfera linguistica: è quello che cercherò di spiegare in questo intervento. Tucidide non si sbagliava: τὸ ἀνθρώπινον, ovvero il fattore umano, ha delle costanti che vanno, comunque, non solo tenute presenti, ma coltivate.
Confesso che mi hanno sempre fatto tenerezza i tentativi, certamente generosi e sinceri, di quanti hanno cercato di motivare l’importanza dello studio delle lingue classiche con argomenti che definirei “esterni”.
A partire da quelli linguistici, come il valore delle etimologie e della conoscenza della genesi delle parole; per passare poi a quelli metodologici, quali il rigore dell’analisi e l’abitudine alla precisione, la cura dei dettagli e l’insofferenza per la genericità; e arrivare infine a quelli culturali come l’identità europea, la consapevolezza di appartenere a un contesto storico, la capacità di cogliere i valori di alterità, non solo di identità, per evitare gli stessi errori del passato.
Ho citato solo alcuni esempi delle consuete affermazioni che si sentono sempre ripetere e che rappresentano una specie di canone condiviso di litanie, per cui il latino (e il greco) vanno studiati e soprattutto vanno considerati come il fattore identificativo della licealità classica e moderna.
Il fatto è che per quanti ritengono che lo studio del latino (forse meno del greco…) sia in realtà tempo perso, tutti questi argomenti risultano speciosi e privi di fondamento. Forse, infatti, che il rigore dell’analisi e l’esercizio alla precisione non sono anche caratteristiche dello studio della matematica, della fisica e dell’informatica?
Forse che la cura dei dettagli e l’insofferenza per la genericità non sono tratti specifici e formativi dello studio delle scienze naturali e delle scienze umane? E poi, non siamo ancora consapevoli dei danni che i nazionalismi del Novecento hanno prodotto proprio in nome dell’Identità Romana, in particolare, e classica in generale?
Dopo le follie del Novecento la consapevolezza di appartenere a un contesto storico che esige di evitare gli stessi errori del passato si forma con lo studio della storia (spesso malcondotto); soprattutto della storia, appunto, del Novecento.
Altro che latino (e greco)! In merito non ci sono solo argomentazioni istintive, ma anche studi rigorosi, condotti da universitari desiderosi di capire perché mai queste due linguacce, benché “morte”, suscitino sempre da un lato tanto amore, dall’altro tanta paura.
(1 – continua)
.
.
.
.
.
.
.
.