Se non andranno in porto, sarà impossibile recuperare i ritardi di apprendimenti che penalizzano gli studenti italiani rispetto ai coetanei europei. Recupero che appare tanto più necessario, alla luce delle perdite che la pandemia e troppi mesi di lezioni a singhiozzo hanno causato a ragazze e ragazzi, mettendone a rischio il futuro

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione straordinaria di miglioramento della scuola italiana: non solo per gli ingenti investimenti previsti, soprattutto in edilizia, asili e scuola dell’infanzia, ma anche attraverso le sei riforme che il governo si è impegnato a realizzare: reclutamento e formazione dei docenti, carriera, orientamento, riorganizzazione del sistema scolastico, istituti tecnici e professionali e Istituti tecnici superiori.

Queste riforme sono essenziali per due ragioni. La prima è che, se non andranno in porto, sarà impossibile recuperare quei ritardi di apprendimenti che penalizzano gli studenti italiani rispetto ai loro coetanei europei. Recupero che oggi appare tanto più necessario e difficile, alla luce delle gravi ulteriori perdite che la pandemia e troppi mesi di scuola a singhiozzo hanno causato a ragazze e ragazzi, mettendone a rischio il futuro.

Ricordo un solo dato: nel 2021 uno su due è arrivato all’esame di maturità senza un livello sufficiente di competenze. La seconda ragione è che la realizzazione delle riforme è condizione perché siano erogate le prossime tranche di finanziamento: se non si faranno, potremo dire addio alle risorse che l’Unione Europea sta raccogliendo sui mercati per noi, con conseguenze facilmente immaginabili.

Purtroppo, dei contenuti del riordino della scuola si sa molto poco, a cominciare dai nuovi meccanismi di formazione iniziale e assunzione dei docenti delle scuole secondarie, che il ministro Bianchi ha annunciato per giugno. Si tratta della “madre” di tutte le riforme: la qualità dell’insegnamento dipende infatti da come i docenti sono formati e selezionati.

Oggi, dopo il disastroso intervento del ministro Bussetti nel 2019, l’unico requisito richiesto ai futuri insegnanti è la laurea magistrale più 24 miseri crediti universitari in materie psicopedagogiche. La conseguenza – lo dicono loro stessi nelle indagini internazionali – è che i nostri docenti conoscono la disciplina, ma spesso non sanno insegnarla, privi come sono di preparazione didattica: teorica, ma soprattutto pratica.

Quali i nodi su cui è urgente accelerare? A mio avviso, il momento dell’abilitazione all’insegnamento, a seguito di una verifica severa delle capacità professionali, deve essere distinto da quello dell’assunzione. Che l’abilitazione definisca un diritto all’assunzione, al netto dei bisogni delle scuole – com’è avvenuto in questi anni – è un’anomalia da superare.

La domanda più importante, tuttavia, riguarda quale formazione vogliamo che ricevano i professori. Se la si penserà nel segno di una maggiore qualità didattica – ad esempio affiancando frequenti tirocini in aula allo studio delle metodologie – anche la scelta di un nuovo sistema di reclutamento diventerà più facile. Per il momento, però, è emersa solo l’intenzione di ampliare i crediti formativi a 60, equivalenti a un anno di università, ma si ignora se avverrà nell’ambito di una laurea abilitante o di un master, se l’accesso sarà a numero chiuso, come si valuteranno le competenze a fine del percorso, ecc.

I convitati di pietra della riforma sono le università: oggi, come dimostra il caso degli insegnanti di sostegno, non sembrano in grado di formare, soprattutto dal punto di vista pratico, un numero di docenti adeguato alle esigenze dei territori e delle diverse materie. Né hanno grandi incentivi a farlo. Il rapporto fra scuola e università nella formazione iniziale deve dunque cambiare: ma non è il solo. Per attrarre i migliori laureati nella scuola, occorre intervenire anche sugli altri tasselli previsti dal Pnrr, a partire dalle carriere, dalla formazione in servizio e da un livello retributivo adeguato.

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Andrea Gavosto è direttore della Fondazione Agnelli

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