di Monica Piolanti, La Tecnica della scuola, 2.11.2025.
Vent’anni dopo l’avvio dell’autonomia scolastica.
Nel lontano 2003, in un’Italia scolastica che si affacciava timidamente all’autonomia, Roberto Maragliano, professore all’Università degli Studi di Roma Tre, poneva sul tavolo, nel suo libro La Scuola dei tre No, Editori Laterza, interrogativi di una potenza disarmante: “Perché io Repubblica debbo tenere in piedi la baracca, per averne che cosa? Perché io genitore debbo mandarci mio figlio, perché gli venga dato che cosa? Perché io allievo sono costretto a passarci così tanto tempo, a che pro? Perché io docente debbo sforzarmi tanto, per ottenere risultati così modesti e ambigui?”.
Queste domande, lette oggi, nel 2025, in un’epoca post-pandemica dominata dall’AI e da una crisi educativa silenziosa, risuonano con un’attualità persino più acuta. Maragliano individuava una crisi di legittimazione: la scuola non riusciva più a rispondere al “perché” esistenziale.
Oggi, la “baracca” della scuola è ancora in piedi, ma è scossa da venti che nel 2003 erano solo una brezza. Sì, le cose stanno ancora così, ma la crisi si è stratificata. Nel 2025, la scuola è il principale ammortizzatore sociale e laboratorio di cittadinanza più complesso.
La sua funzione è diventata ipertrofica, inglobando la custodia (welfare), la selezione (il titolo) e l’etica (inclusione e civismo). Il bilancio è che ciò che più turba il mondo della scuola è la confusione tra il contenuto (i saperi) e il contenitore (la funzione sociale).
L’interrogativo del docente (“perché sforzarmi tanto per risultati modesti?”) trova oggi una risposta nel peso insostenibile della burocrazia valutativa e amministrativa. La pletora di documenti come PEI (Piani Educativi Individualizzati), PTOF (Piani Triennali dell’Offerta Formativa), RAV (Rapporto di Autovalutazione), e le infinite procedure di certificazione delle competenze, hanno trasformato l’insegnante in un impiegato amministrativo-valutativo.
Gran parte dell’energia viene drenata non dal rapporto con l’allievo, ma dalla compilazione di moduli richiesti da un sistema che sembra fidarsi più dei numeri e dei verbali che della professionalità in classe. Per affrontare il burnout e ottenere risultati migliori, lo Stato deve operare un drastico snellimento burocratico, riducendo gli adempimenti a quelli strettamente essenziali per la governance e restituendo il tempo e la libertà di insegnamento alla cura della relazione didattica. L’interrogativo dell’allievo (“a che pro?”) è amplificato dall’avanzare dell’Intelligenza Artificiale, che rende l’accesso all’informazione istantaneo.
Non è più legittimo studiare ciò che si sa, ma è cruciale insegnare il metodo per imparare, verificare e ricombinare ciò che è accessibile ovunque. La legittimazione dei saperi passa dal curriculum essenziale per l’autonomia intellettuale e civica. Il sapere si legittima come strumento di discernimento in un ambiente saturo di fake news e deepfake. L’obiettivo non è memorizzare, ma saper porre le domande giuste e saper agire sul sapere, includendo l’alfabetizzazione AI, che non significa solo usare la tecnologia, ma capire come funzionano gli algoritmi e il loro impatto sulla società..
Parallelamente, la crescente delega educativa è una delle maggiori difficoltà lamentate: la scuola è vista dalla famiglia come un servizio a tempo pieno, non solo di istruzione ma anche di supplenza affettiva. La mancanza di una coesione valoriale tra casa e scuola costringe il docente a vestire i panni del “docente-genitore”. Per ricostruire la co-responsabilità, serve implementare programmi di parent training e creare un patto educativo chiaro e reciproco, dove la scuola si concentra sull’istruzione e la famiglia sul sostegno emotivo e valoriale, liberando l’energia del docente. Infine, la discussione sull’ingresso delle tecnologie digitali è spesso intrappolata in una polarizzazione sterile.
La loro legittimazione scolastica non è data dal semplice acquisto di hardware, ma dalla loro capacità di arricchire la didattica. La vera legittimazione si ha solo quando le tecnologie consentono ciò che prima era impossibile: personalizzare i percorsi di apprendimento per ogni allievo, facilitare la didattica laboratoriale (es. simulazioni, coding, creazione multimediale) e sviluppare le competenze digitali avanzate. Se la tecnologia aiuta lo studente ad agire sul sapere e non solo a riceverlo, a produrre e non solo a consumare, allora è uno strumento di riforma. Per rispondere definitivamente alla crisi di legittimazione, il senso della “baracca” oggi deve essere rigenerato non dalla quantità di adempimenti, ma dalla qualità del tempo trascorso in essa. La scuola del 2025 deve tornare a essere un luogo dove il sapere è potere, dove il tempo speso è un investimento strategico nel futuro civile della persona.
Questo richiede un patto di sistema in cui lo Stato finanzi e protegga il mandato primario, i docenti siano liberati dalla burocrazia e riqualificati per la didattica digitale, e le famiglie tornino a essere co-protagoniste attive, superando i “Tre No” per approdare a un grande “Sì” alla scuola. In questa prospettiva di cambiamento, risuona potente l’invito di Maragliano a comprendere la natura profonda della trasformazione tecnologica: “La scuola è stata ed è il luogo dove si è imparato a leggere, scrivere e far di conto. Un apprendimento legato anch’esso a una tecnologia, quella della stampa. Il digitale apre anche ad altre dimensioni: ascoltare, vedere, operare.”
Questa frase è la chiave per superare la crisi di legittimazione, perché ci ricorda che la scuola non è un’entità eterna, ma un dispositivo tecnologico ed epistemologico in continua evoluzione. Se la tecnologia della stampa ha plasmato l’istruzione sul sapere lineare e testuale, il digitale esige l’integrazione del sapere visivo, uditivo e manipolativo. La sfida non è difendere la “baracca” così com’è, ma smontare i mattoni burocratici e nozionistici per ricostruire un ambiente che insegni agli allievi ad agire sul mondo con tutti i loro sensi e strumenti, compresa l’AI, legittimando così un sapere che non sia solo letto, ma vissuto e operato.
