Scuole aperte o chiuse per il contagio? Il vero rischio è restare immobili

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Si è tornati a parlare di una ricerca vecchia di mesi, mai pubblicata, con dati e conclusioni poco chiare e che non può dimostrare granché. Come se non esistesse una terza via tra il colpevolizzare e lo scagionare la scuola.

Gilda Venezia

Il mondo della scuola italiano, come grandissima parte del nostro paese, è in sofferenza da un anno. Tra chiusure degli edifici scolastici, adozione della didattica a distanza, misure anti-contagio in classe e continui cambiamenti organizzativi e normativi, non c’è dubbio che anche i giovanissimi studenti stiano pagando a un prezzo molto caro ciascuna delle ondate pandemiche di Covid-19. E quand’anche non direttamente con la propria salute, di certo in termini di socialità, di relazioni interpersonali, di ricchezza dell’offerta didattica e di tutto ciò di umano che caratterizza il percorso scolastico.

Una domanda che molti si sono posti, soprattutto dall’estate 2020 in poi quando il tema della riapertura delle scuole fisiche è entrato nel dibattito pubblico, è se e quanto la permanenza in classe di studenti e studentesse sia un acceleratore dei contagi. Ossia, viceversa, quanto le misure di sospensione delle attività scolastiche in presenza siano uno strumento valido e ragionevole per contenere la diffusione del virus.

La distorsione cognitiva del bianco o nero

Prima ancora di entrare nel merito delle evidenze disponibili e delle novità (mediatiche, più che sostanziali) degli ultimi giorni, occorre una premessa. Moltissimo del dibattito politico e pubblico sul tema della sicurezza delle scuole è profondamente polarizzato. Non solo perché ci sono i fan delle scuole aperte a ogni costo contrapposti ai fan delle chiusure a oltranza, ma soprattutto perché a tratti pare che le uniche possibilità siano due: o la scuola è la colpevole dei contagi, il problema numero uno nel contenimento del virus, oppure nulla ha a che fare con la diffusione del virus stesso, cioè ha un impatto sostanzialmente nullo sulle curve epidemiche.

La si potrebbe chiamare una negazione della complessità, un guardare selettivamente a un aspetto senza tenere conto del contesto, o un dimenticarsi di quella zona grigia che separa il bianco e il nero. Perché da un lato è ovvio che la pandemia ci sarebbe pure se le scuole non esistessero e i giovani fossero rinchiusi in una bolla nelle rispettive camerette, e dall’altro è altrettanto evidente che lasciare due o tre decine di studenti in una stessa stanza per molte ore sia un’occasione di contagioanche al netto di tutte le possibili precauzioni adottate. Al limite si può disquisire sul quanto le scuole siano motore del contagio, ma non sul se, come vale per qualunque attività che implichi la vicinanza tra esseri umani.

Alcuni esempi di fattori di complessità

Gli aspetti da tenere in considerazione prima di poter dare una risposta scientificamente sensata alla domanda su quanto le scuole c’entrino con i contagi sono così tanti che possiamo limitarci a elencarne alcuni. Anzitutto, quali misure di contenimento sono previste, e con quanto rigore vengono applicate: mascherine, distanziamento, areazione dei locali, disinfezione delle mani, rilevazione della temperatura, tamponi di screening, attività di contact tracing e così via. Secondo, è difficilissimo (per non usare la parola impossibile) disaccoppiare quello che accade dentro la scuola con tutto ciò che succede intorno, dal piazzale antistante all’edificio fino all’interno dei mezzi pubblici, dai ritrovi pomeridiani fino alle attività extrascolastiche di qualunque natura. A meno di non ipotizzare un prelevamento dalla cameretta e un teletrasporto al banco (e viceversa, senza eccezioni), nel ruolo della scuola nei contagi rientrano di fatto anche tutta una serie di questioni che non sono affatto strettamente scolastiche, e che noi possiamo misurare solo sulla base del numero di giovani contagiati.

Ancora qualche fattore di complessità? Il periodo dell’anno, perché non c’è dubbio che il contesto delle prime settimane di rientro a settembre sia molto diverso da quello dell’inverno. Le varianti del virus, che come sappiamo portano con sé caratteristiche diverse di contagiosità, e di impatto sulle diverse fasce d’età. L’ordine scolastico, dato che una materna o una superiore sono entrambe scuole, ma di fatto sono mondicompletamente diversi, con esigenze, abitudini e modalità quotidiane nemmeno lontanamente paragonabili. Insomma, quando si dice che la scuola è sicura o insicura, colpevole o innocente, responsabile o neutra, bisognerebbe chiedersi anzitutto che cosa si stia intendendo con la parola scuola.

L’apertura delle scuole non è stata scagionata

Di recente il tema è tornato all’attenzione mediatica in seguito a un’intervista rilasciata dall’epidemiologa e biostatistica dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) Sara Gandini sul Corriere della sera, di poche ore successiva a una proposta relativa alla scuola lanciata dalla pagina Facebook Pillole di ottimismo, di cui la stessa Gandini è una delle promotrici. Oggetto dell’intervista è uno studio in cui la scienziata figura come prima autrice, secondo cui non c’è evidenza di un legame tra le scuole e la seconda ondata di contagi in Italia”, come il titolo stesso della ricerca (tradotto in italiano) afferma.

Una conclusione apparentemente piuttosto netta, su cui però ci sono alcuni punti controversi. Anzitutto, la ricerca a cui si fa riferimento non è uno studio scientifico pubblicato dopo essere stato sottoposto alla revisione dei pari, ma una versione in pre-print disponibile sull’archivio Medrxiv dallo scorso 18 dicembre. Finora, a oltre tre mesi di distanza, non ha ancora ottenuto spazio su alcuna rivista scientifica.

In secondo luogo, il periodo a cui lo studio è riferito va dalla riapertura delle scuole dopo la pausa estiva (che ha avuto date diverse nelle varie regioni) fino all’8 novembre scorso. Un contesto molto differente da quello odierno, sia in termini di varianti del Sars-Cov-2 prevalenti, sia di circolazione generaledel virus. Dunque è in ogni caso arduo trarre da questi dati delle informazioni utili per elaborare strategie per il presente e il prossimo futuro (Angela Merkel ha parlato in proposito di “una nuova pandemia” che stiamo affrontando in queste settimane). Come ovvio, se la variante in circolazione fosse meno contagiosa e se in generale i casi fossero pochi, allora anche il contributo della scuola sarebbe più piccolo. Ma al momento pare che la situazione sia proprio l’opposto.

Per pignoleria, va aggiunto che in alcune situazioni specifiche il periodo preso in considerazione dalla ricerca è ancora più breve di quello citato, perché per esempio in Lombardia le scuole superiori sono state spostate in didattica a distanza già a partire dal 26 ottobre.

Come terzo elemento, non è chiaro quali siano i dati sulla base dei quali sono stati ottenuti i risultati. È un tema che anche qui su Wired è stato ampiamente raccontato, con dati ottenuti dalla redazione grazie a una richiesta Foia inviata al Miur, e che poi l’allora ministra Lucia Azzolina ha ampiamente criticato e contestato. Nel documento in pre-print si legge di “dati raccolti nell’ambito del sistema di rendicontazione nazionale messo in atto dal ministero dell’istruzione italiano” per i quali ci sarebbe stata “un’autorizzazione legale per elaborare informazioni riservate”: da quanto emerso in quelle settimane, i dati sarebbero stati disponibili per meno della metà dei comuni italiani in cui ha sede almeno una scuola (2.546 su più di 6.700), e soprattutto terrebbero conto dei contagi registrati tra studentie personale scolastico senza potere ovviamente stabilire dovequesto contagio sia effettivamente avvenuto. Insomma, un database né completo né particolarmente rigoroso nella compilazione.

Tra le altre critiche mosse allo studio, c’è quella di non introdurre differenziazioni per fasce d’età, inserendo in un unico calderone statistico tutti gli studenti (ossia tutte le persone) dai 5 ai 19 anni di età, indipendentemente dal grado di scuola frequentato. E poi, di giungere a conclusioni senza avere un campione di confronto. In altri termini, non c’è a disposizione una statistica che mostra le differenze tra una popolazione di studenti che frequenta la scuola e una equivalente che non la frequenta, ma ci si limita a raffrontare gli studenti con la popolazione adulta. O al più a ragionare su minime differenze nella data di apertura delle scuole a settembre.

Ciò significa che, di fatto, le conclusioni possono riguardare semmai quanto varia la facilità di contagio a seconda della fascia d’età, ma che questa variazione sia da attribuire (soprattutto? solamente?) alla scuola è una semplice ipotesi. L’unico caso in cui si può fare un confronto tra un campione scolastico e uno extra scolastico sono gli adulti, per i quali lo stesso documento conclude che “l’incidenza tra gli insegnanti è maggiore dell’incidenza nella popolazione generale, ma paragonabile a quella registrata nella popolazione generale della stessa età”.

Quando la dicotomia impedisce le migliorie

Il tema dell’apertura e della chiusura delle scuole, al di là della solidità delle evidenze scientifiche raccolte, resta comunque dai forti connotati politici. Anche ammesso che si riesca a stabilire con ragionevole certezza che le scuole siano un luogo in cui ci si contagia di più o di meno rispetto ad altre attività (abbiamo provato a mettere insieme un po’ di evidenze qui) la soluzione non sarebbe comunque univoca. Di sicuro mandare i giovani nelle scuole genera più contagi che tenerli in casa, e di sicuro tenerli a casa genera effetti negativi in termini di socialità e qualità della formazione. Ma dove fissare la soglia, e soprattutto come tararsi in base al livello generale di contagio e rispetto ad altre attività che spaziano dai ristoranti alle palestre, resta comunque una questione arbitraria. In cui la scienza del contagio è solo una delle componenti che entrano in gioco.

Un rischio indotto dalla polarizzazione, tanto in un verso quanto nell’altro, è però che si perda di vista l’obiettivo: contenere quanto più possibile i contagi e allo stesso tempo rendere le scuole sempre più adatte alla nuova normalità. Sostenere che le scuole siano già ora sicure (qualunque cosa ciò significhi) significa sottintendere che quanto fatto fin qui sia più che sufficiente, cioè che gli edifici scolastici, l’organizzazione delle attività e le misure adottate non abbiano bisogno di migliorie e aggiustamenti. Viceversa, sostenere che le scuole siano pericolose (qualunque cosa ciò significhi) potrebbe apparire quasi come un rassegnarsi all’idea degli edifici svuotati e della didattica a distanza a tempo indeterminato.

Così, in questa dicotomia tra sostenitori e avversari della scuola in presenza, il vero rischio è quello dell’immobilismo, con le scuole che vengono accese e spente come fossero interruttori, senza però cambiare nulla nell’organizzazione generale. Al di là delle mascherine, dei banchi monoposto e dei barattoli di disinfettante, non molto altro sta cambiando: gli orari scaglionati, il ragionare su 24 (o anche solo 12 o 8) ore nell’arco della giornata, il trasporto pubblico, il rivedere la dimensione dei gruppi classe o delle aule sono tutte questioni che hanno a che fare con la sicurezza delle scuole, ma su cui i vincoli normativi, economici e sociali sembrano non lasciare spazio. E alla fine si continua a litigare su quanto l’ecosistema scolastico sia o non sia sicuro. Come se la scuola fosse un esopianeta distante chissà quanti anni luce dalla Terra, che possiamo solo limitarci passivamente a osservare, studiare e criticare, senza poterci mettere fisicamente mano per migliorare le cose.

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Scuole aperte o chiuse per il contagio? Il vero rischio è restare immobili ultima modifica: 2021-03-25T07:12:54+01:00 da

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