marialetiziablog, 18.10.2015
I recentissimi, tragici fatti di Milano – con un ragazzo morto dopo una caduta dal sesto piano di un albergo di Milano, mentre il poveretto era in viaggio di istruzione con tutta la sua classe- hanno di nuovo generato il solito, sterile dibattito su scuola e professori, animato da chi, in particolare, dimostra, ancora una volta, di sapere poco su questo mondo e su come funziona.
Ogni insegnante – ogni volta che si lascia tentare dalla sciagurata idea di fare da accompagnatore alla sua classe – ha la responsabilità diretta di diciassette persone.
“Responsabilità diretta” vuol dire che per tutto ciò che può accadere il docente risponderà civilmente e penalmente, come non manca di sottolineare puntualmente, ed in modo lugubre, la nomina che gli viene fatta recapitare dal Dirigente prima della partenza.
Ciò vuol dire che, a partire dal minuto zero della partenza, fino al sospiratissimo attimo del ritorno, sarà lui a dover rispondere davanti ad un giudice di ogni guaio che si sarà creato per strada.
E la strada oggi è impervia.
Provate voi a non perdere mai – MAI – di vista diciassette persone.
Fino a circa quindici anni fa le cose non sembravano essere troppo preoccupanti: si partiva e si ritornava, senza che venissero fuori tanti problemi, ma oggi solo un folle può pensare di partire sereno in gita con i ragazzi e magari di dormire il sonno del giusto durante la notte.
In primo luogo perché la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi conosce poco le regole fondamentali dell’educazione e della cosiddetta “convivenza civile” e questo vale anche per quelli che nel perimetro della classe ci appaiono come angioletti.
I loro genitori hanno spesso creato i cosiddetti “egomostri”, delle persone, cioè, incapaci di empatia, di senso del limite, spesso prive di freni inibitori, semplicemente perché il loro ego non conosce neppure lontanamente il significato della parola “confine”, perciò questi ragazzi non si rendono nemmeno conto di non avere gli strumenti per vivere a lungo in una comunità, conoscono solo il perimetro della celletta interiore in cui sono rintanati da sempre.
Talvolta i genitori hanno rinunciato a fare il loro mestiere ed i loro figli sono delle macchine con il motore in piena accelerazione su una strada piena di curve.
In quei tre-cinque giorni di gita il professore si ritroverà a gestire tutta una serie di situazioni assai poco piacevoli:
Di fronte a tutto ciò il povero professore deve ritenersi “di guardia” ventiquattr’ore su ventiquattro, sapendo bene che tutto il suo sforzo, la sua tensione non riceveranno alcuna forma di compenso, perché da tempo è stata anche abolita la ridicola diaria di cui “godeva” in precedenza.
Qualcuno dirà che almeno, pur tra tanti disagi, si gira un po’ di mondo, visto che i nostri stipendi non ci permettono più vacanze.
Mi chiedo – tuttavia – se questo perenne stato di tensione, mista ad amarezza, può essere chiamato “vacanza”. Non è preferibile restarsene a casa, lasciando quei ragazzi alla gestione di chi li ha resi in questo modo, impedendo così ai genitori di pontificare su come dovrebbe comportarsi l’insegnante con i loro figli, ma lasciandoli immersi nella costruzione dei loro personalissimi “capolavori”?
Abbandoniamo le gite! Tutti quanti!
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