di Daniele Checchi, La Voce.info, 16.9.2022.
Qual è l’idea di scuola dei partiti? Nei programmi elettorali nessuno esplicita apertamente la propria visione, per paura di perdere consensi. Così il tema della formazione diventa sufficientemente generico da non essere discriminante per l’elettorato.
Consenso generalizzato sull’aumento delle risorse
Approfittando del prezioso lavoro di analisi dei programmi elettorali sul tema dell’istruzione realizzato da Andrea Gavosto, vale la pena di concentrare l’attenzione sui due temi che appaiono caratterizzare la campagna elettorale in quanto o troppo consensuali o troppo divisivi ideologicamente.
Sul lato consensuale, tutti i partiti sembrano concordare sulla necessità di aumentare le risorse investite nella scuola: Si, Pd, Az-Iv e FI propongono la generalizzazione del tempo pieno a tutti gli ordini scolastici; Si aggiunge la riduzione della dimensione delle classi a 15 studenti e l’abolizione delle tasse universitarie; il Pd si focalizza sulla necessità di allineare le retribuzioni degli insegnanti italiani a quelle dei colleghi europei, senza trascurare nidi gratis per le famiglie a basso reddito, oltre che computer e libri gratis per tutti gli studenti; Az-Iv e FI propongono il rifacimento e la messa a norma di tutti gli edifici scolastici (spesa prevista 200 miliardi di euro); la Lega insiste sulla stabilizzazione dei docenti assunti a tempo determinato (200 mila docenti), mentre FdI auspica l’abolizione dei test d’ingresso ai corsi universitari, spostando la restrizione all’inizio del secondo anno, obbligando le università a introdurre corsi introduttivi su larga scala. Sulla libertà di scelta tra scuola pubblica e privata si esprimono Az-Iv, FI e FdI, riproponendo l’avvio di voucher sul modello dell’esperienza lombarda.
In realtà, il problema del nostro paese non sembra tanto quello del livello della spesa, ma della sua riallocazione. Come ha più estesamente illustrato lo stesso Gavosto in un bel saggio appena pubblicato (La scuola bloccata), il confronto internazionale mette in luce come, nonostante la sua impostazione unitaria e centralistica, la scuola italiana non riesca a contrastare i divari di risultato degli studenti legati alle origini sociali, ivi includendo anche i divari territoriali che si allargano col procedere nella carriera scolastica. Si investe di più degli altri paesi in istruzione primaria e secondaria, ma meno in terziaria. Ci sono più insegnanti, ma sono peggio pagati. E così via.
Un progetto politico serio dovrebbe indicare quali aspetti potenziare per affrontare quali problemi, che acquistano così priorità, ovviamente a scapito di altri aspetti, che devono essere ridimensionati. Per porre la questione in termini brutali: in Italia, nel 2022, è più importante recuperare la dispersione implicita identificata dalle analisi Invalsi (cioè la quota di studenti che escono da un ordine di scuola non possedendo i minimi funzionali), mettere a norma gli edifici o definire i percorsi di carriera degli insegnanti? Quello che appare dalla lettura trasversale dei programmi elettorali è che nessun partito desidera esprimere una preferenza forte, per evitare di inimicarsi frazioni di potenziali elettori, più o meno toccati da questi aspetti.
Il disegno complessivo
Sull’altro versante troviamo invece interventi di disegno istituzionale, che sono interventi strutturali destinati ad avere impatto nel lungo periodo, ma che richiedono costruzione di consenso parlamentare sempre più difficile da raggiungere. Solo Az-Iv e Pd propongono l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, accompagnato dall’accorciamento del percorso scolastico complessivo a 18 anni (Az-Iv e FdI).
Nessun partito considera importante ridurre la stratificazione del sistema scolastico riprendendo l’idea di un ciclo unico della scuola secondaria di primo grado fino a 16 anni (anzi il programma della Lega propone il rilancio degli istituti professionali per renderli più competitivi). Tuttavia, numerosi studi suggeriscono che questo aspetto è il principale responsabile della persistenza delle origini sociali nella carriera scolastica degli studenti, oltre che dei diversi tassi di transizione alla formazione terziaria. Questo è probabilmente l’aspetto più ideologicamente divisivo nel dibattito politico italiano, tant’è che è stato accantonato dai tempi dei ministri Berlinguer e Moratti, in cui il primo varò una riforma in questo senso e la seconda si rifiutò di attuarla emanando i decreti attuativi. La stessa sorte è toccata più di recente dell’alternanza scuola-lavoro: ampliata e generalizzata dalla riforma della Buona scuola e ridimensionata dai ministri successivi.
Il nodo irrisolto su cui i partiti evitano di pronunciarsi in modo esplicito è il seguente: il sistema scolastico deve formare culturalmente o professionalmente gli studenti? Tutti concordando che entrambe le dimensioni vadano potenziate, ma spostano l’accento sull’una o sull’altra dimensione. Chi sottolinea la formazione culturale presta maggior attenzione alla costruzione delle competenze di base e generaliste, non disdegnando l’aspetto nozionistico. Viceversa, chi ha più a cuore l’aspetto professionalizzante privilegia percorsi e contenuti più orientati al fare, spesso a scapito di una cultura generalista. I primi invocano l’importanza di formare al cambiamento, i secondi ricordano la necessità di una spendibilità veloce dei titoli di studio nel mercato del lavoro. Sinistra e destra, nella misura in cui questi concetti sono ancora identificativi di una visione sociale, tendono a distribuirsi lungo questo spettro. Ma nessuno esplicita apertamente la propria visione, per paura di perdere consensi. Come nel caso precedente, tuttavia, questo annebbia il dibattito, rendendo l’aspetto della formazione sufficientemente generico da non essere discriminante per l’elettorato.
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Se i partiti nascondono la loro idea di scuola ultima modifica: 2022-09-16T13:40:00+02:00 da