di Paola Profeta, La Voce.info, 1.3.2020
– Con l’espandersi del coronavirus a molti lavoratori è stato chiesto di lavorare da casa. Una ricerca condotta prima dell’emergenza sanitaria mostra i vantaggi dello smart working. E suggerisce che sarebbe positivo per tutti mantenerlo anche in futuro.
Una parola tutta italiana
“Smart working “è diventata una parola chiave in queste settimane di emergenza coronavirus. Sono ormai pochi gli italiani che non l’abbiano sentita o utilizzata. Per mantenere la sicurezza, ridurre il contagio e continuare a lavorare, tutti stanno lavorando “smart”, per lo più da casa. Non era così prima del coronavirus, nonostante lo smart working sia stato regolamentato dalla legge 81 del 2017 e nonostante i progressi degli ultimi anni. Stiamo vivendo l’esplosione del lavoro “smart” e cioè il lavoro flessibile che prevede flessibilità di luogo (lavorare da casa, ma anche da un’altra sede diversa dal luogo di lavoro) e tempo (lavorare in orari flessibili, e non nell’orario fisso, tipicamente 8-16 o 9-17) di lavoro, grazie all’uso della tecnologia.
Ma cosa sappiamo dello smart working in situazioni normali, fuori dall’emergenza?
Quando, qualche anno fa, con Marta Angelici abbiamo iniziato a occuparci del tema non abbiamo trovato molto. Nonostante la parola sia inglese, fuori dall’Italia nessuno usava questo termine: “smart working” non esiste in nessun documento non italiano, in nessun paper accademico, in nessuna indagine giornalistica. Niente. Si parla semmai di “flexible work arrangements”, flessibilità di tempo, di luogo, lo stesso concetto, ma da nessuna parte si trova la parola “smart working”. Sembra che la parola sia stata introdotta da noi italiani, prima del coronavirus. Proprio da noi, a cui ora è così utile…
Al di là delle parole con cui viene indicata, la flessibilità nei tempi e luoghi di lavoro è sempre più apprezzata dai lavoratori in tutto il mondo: secondo una recente indagine Gallup su lavoratori americani, il 37 per cento è disposto a cambiare lavoro per avere flessibilità di luogo e il 54 per cento per avere orari flessibili, percentuali che salgono rispettivamente al 50 e al 63 per cento se consideriamo le risposte dei millenials.
Nonostante l’interesse e la diffusione, non abbiamo trovato studi rigorosi sugli effetti economici dello smart working. La letteratura economica sembrava ferma al telelavoro (si veda in particolare Nicholas Bloom, James Liang, John Roberts, and Zhichun Jenny Ying, 2014), di cui lo smart working è l’evoluzione e da cui si distingue per caratteristiche proprie ben precise. Non mancano indagini di tipo qualitativo, interviste ai lavoratori e varie analisi svolte su campioni di lavoratori che hanno utilizzato questa modalità di lavoro. Questo tipo di indagini non è molto informativa, poiché soffre di endogeneità (come facciamo a dire, per esempio, che lavorare smart rende più produttivi o più felici se non possiamo escludere che siano i lavoratori più produttivi o i più felici a lavorare smart?) e non ci permette di identificare i rapporti causa-effetto tra l’utilizzo dello smart working e le sue conseguenze sui risultati economici.
I risultati di una ricerca
Nel paper “Smart working: work flexibility without constraints” con Marta Angelici abbiamo cercato di colmare il gap della ricerca e capire quali effetti ha lo smart-working sulla produttività dei lavoratori, sul loro benessere e sulla conciliazione tra vita lavorativa e personale.
Lo studio, iniziato nell’ambito del progetto Elena sviluppato dal dipartimento Pari opportunità con il Centro Dondena dell’Università Bocconi, ha previsto il disegno di un esperimento in cui un gruppo di lavoratori di una grande azienda è stato selezionato in modo casuale per lavorare smart per nove mesi (gruppo trattato) mentre un altro gruppo (di controllo) ha continuato a lavorare in modo tradizionale. Confrontando i risultati dei lavoratori del gruppo trattato e di quello di controllo abbiamo ottenuto una stima degli effetti causali dello smart working sugli indicatori rilevanti: produttività, benessere individuale e bilanciamento tra vita lavorativa e vita personale.
Il nostro obiettivo è stato esplorare attraverso l’analisi empirica dell’esperimento gli effetti dello smart working che, in linea teorica, ha potenziali effetti positivi e negativi. Da un lato infatti può ridurre i costi di spostamento per i lavoratori, alcuni costi aziendali (come riscaldamento, condizionamento, mense), migliorare la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, aumentare l’utilità dei lavoratori che traggono beneficio da orari flessibili (perché, per esempio, hanno bisogno di una pausa per ragioni personali o familiari) e da luoghi flessibili (perché, per esempio, abitano lontano dalla sede di lavoro o hanno bambini piccoli oppure anziani che non possono lasciare soli) e in questo modo migliorare la loro produttività e anche il loro attaccamento all’impresa. Dall’altro lato, però, lo smart working può ridurre l’impegno, creare fenomeni di isolamento che potrebbero avere effetti negativi sulla produttività di alcuni lavori che richiedono elevata interazione e, riducendo il confine tra lavoro e casa, potrebbe anche creare il rischio di lavoro eccessivo e di stress per il lavoratore. Quale dei due effetti prevalga dipende dalla tipologia di lavoro (in particolare lavori di routine o non), dal contesto lavorativo e dalla durata del periodo flessibile durante la settimana lavorativa.
Nel caso che abbiamo analizzato il trade-off si è risolto a favore degli effetti positivi. I nostri risultati mostrano che lo smart working, utilizzato un giorno alla settimana per nove mesi, ha aumentato la produttività dei lavoratori, migliorato il loro benessere e il bilanciamento tra lavoro e famiglia.
Abbiamo misurato la produttività con un indicatore oggettivo, costruito sulla base dei risultati di ogni lavoratore nella sua mansione (numero di pratiche processate, numero di compiti portati a termine, numero di contratti elaborati e così via) e dal numero di giorni di assenza. L’indicatore è stato integrato con il giudizio dei lavoratori stessi e del loro supervisore secondo alcune dimensioni standard (efficienza, rispetto delle scadenze, pro-attività). I nostri risultati mostrano che i lavoratori smart hanno fatto mediamente 5-6 giorni di assenza in meno degli altri sul totale dei nove mesi di sperimentazione. Inoltre, hanno aumentato il rispetto delle scadenze di circa il 4 per cento (addirittura il 4,5 per cento quando l’indicatore è misurato sulle dichiarazioni del supervisore). Nessuna dimensione ha segnalato una riduzione significativa della produttività a causa dello smart working.
Anche il benessere dei lavoratori è aumentato: i lavoratori smart sono più soddisfatti della loro vita sociale, del loro tempo libero, sono più concentrati, apprezzano di più le loro attività quotidiane, riescono a risolvere meglio i problemi e a prendere decisioni, diminuisce lo stress e la mancanza di sonno. Lo scetticismo, anche legittimo, in base al quale ridurre il controllo sui lavoratori può far scendere il loro impegno, non ha riscontro nella nostra evidenza: anzi, i lavoratori smart si sentono più impegnati nel loro lavoro.
Tutti i lavoratori smart dichiarano di riuscire a bilanciare meglio lavoro e famiglia rispetto agli altri. L’effetto è più forte per le donne, come ci si aspettava, date le loro maggiori esigenze di bilanciamento tra lavoro e famiglia, in particolare nella società italiana. Ma è interessante notare che, nel nostro esperimento, gli uomini in smart working hanno aumentato il tempo dedicato alla cura e alle attività domestiche. Si tratta quindi di uno strumento in grado di ridurre le differenze di ruolo tra uomini e donne all’interno della famiglia, che hanno un peso fondamentale nel divario di genere sul mercato del lavoro. In altri termini, lo smart working aiuta anche la parità di genere.
Maggiore produttività, benessere, equilibrio tra vita lavorativa e familiare, minori disuguaglianze tra uomini e donne. Non sappiamo se lo smart working produrrà gli stessi effetti anche nell’attuale contesto di sperimentazione massiccia durante l’emergenza sanitaria. Sicuramente, i risultati della nostra ricerca suggeriscono che sarebbe positivo per i lavoratori, le imprese e per l’economia se questa nuova forma di organizzazione del lavoro restasse, almeno in qualche misura, anche dopo la fine dell’epidemia di coronavirus.
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