
L’AI per la scuola è sicuramente al centro dell’attenzione, ma può un algoritmo sembrare più empatico di un docente? Non è un esercizio di fantascienza, ma il risultato di uno studio che ha messo in discussione l’idea che l’empatia sia un tratto esclusivamente umano. A firmarlo, sei ricercatori di Eth Zurich, Epgl e Bocconi, tra cui Dirk Hovy, professore associato di elaborazione del linguaggio naturale e scienze sociali computazionali dell’università Bocconi. “Volevamo capire come vengono percepiti i tutor basati su modelli linguistici, non tanto in termini di voti o risultati di apprendimento, ma nei tratti che rendono davvero efficace un insegnante: la capacità di coinvolgere, di guidare senza imporre, di adattarsi alle caratteristiche dello studente”, spiega Hovy.
Un esperimento alla cieca
Il team ha messo a confronto 210 dialoghi su problemi di matematica elementare. Da un lato, docenti reali alle prese con uno studente simulato; dall’altro, MwpTutor, un sistema basato su GPT-4 progettato per garantire risposte corrette e guidare in modo coerente. I dialoghi sono stati valutati da 35 insegnanti esperti, chiamati a decidere chi fosse il tutor migliore su quattro criteri: coinvolgimento, empatia, scaffolding (guidare lo studente senza dare la soluzione) e concisione. Il verdetto è stato sorprendente: l’AI ha battuto l’umano su tutti i fronti e nell’80% dei casi è stata giudicata più empatica. “È il risultato più controintuitivo”, ammette Hovy. “L’AI non prova sentimenti, li simula, ma lo fa abbastanza bene da convincere chi legge i suoi testi”.
Perché proprio la matematica?
La scelta dei problemi di matematica non è casuale. “Volevamo un terreno neutro, dove il risultato non fosse in discussione”, spiega. “Due più due fa quattro, punto. Così potevamo concentrarci su come insegnare, senza ambiguità sul contenuto”.
Ma dietro l’esperimento c’è un obiettivo più ampio: capire come i modelli possano adattarsi alle differenze di personalità degli studenti. “Uno studente introverso può capire tutto ciò che gli viene spiegato ma non lo mostra, mentre uno estroverso può essere molto comunicativo ma non dire di aver capito poco. Per noi insegnanti è complicato raggiungere tutti gli studenti che hanno esigenze, idee e background diversi”. La domanda quindi è se sia possibile progettare un tutor che tenga conto di queste differenze o che almeno faciliti questo processo agli insegnanti reali. L’obiettivo, va precisato, non è quello di sostituire gli insegnanti umani, ma di integrarli in situazioni in cui gli studenti potrebbero aver bisogno di ulteriore aiuto e attenzione.
Pazienza ed empatia infinita, ma solo apparenti
L’intelligenza artificiale, ovviamente, non è davvero empatica, simula, ma lo fa talmente bene da convincere chi la valuta, o perlomeno chi l’ha valutata in questo studio. Gentile, coerente, mai stanca né frustrata. Inoltre, una parte del vantaggio dell’AI è puramente formale: testi senza errori, fluidi e coerenti, rispetto a quelli umani con refusi o frasi poco chiare e talvolta fraintendibili, ad esempio se si usa l’ironia. Ma c’è di più, mostrare empatia è faticoso. “Un insegnante può essere stanco, sopraffatto, distratto. L’AI no, può restare paziente e sorridente 24 ore su 24”, osserva Hovy.
Questo alone di perfezione, anche inconsapevolmente, influisce sulla percezione di professionalità, ma è solo apparenza. “Un modello non sa cosa significhi trovarsi davvero in difficoltà”, avverte. “Non conosce il contesto umano dello studente, può solo restituire l’illusione di capirlo”.
Gli studenti e il fascino del chatbot
Di fronte al risultato di questo studio dovremmo porci anche un rischio pedagogico. Gli studenti potrebbero infatti abituarsi alla pazienza infinita dell’AI e preferirla ai limiti degli insegnanti reali. “Abbiamo già visto studenti contestare professori dicendo: “Ma ChatGPT mi ha detto che non è così”. È giusto che ci mettano alla prova, ma serve insegnare loro che i modelli tendono ad assecondare l’utente, anche quando sbaglia. Noi, invece, dobbiamo anche saper dire no, fornire controesempi, smontare false certezze”.
Una nuova idea di lezione
Se l’AI diventa compagno di ripasso e tutor personalizzato, il ruolo del docente si sposta: “Entreremo in aula dando per scontato che gli studenti abbiano già interagito con il tutor, negarlo non avrebbe alcun senso. Il nostro compito sarà mostrare come usare davvero quelle conoscenze, metterle alla prova, smontarle se serve. Meglio offrire a tutti l’opportunità di avere accesso a ChatGPT e insegnare a usarla in modo critico. L’importante è evitare che diventi un privilegio per pochi”, sottolinea Hovy.
L’arrivo dell’AI non cancella il ruolo dei docenti, ma lo trasforma. “Nel Medioevo il metodo di insegnamento considerato migliore era la trasmissione frontale di informazioni. Con il passare del tempo, gli studenti hanno acquisito sempre più autonomia su come volevano imparare le cose“. Hanno iniziato ad avere accesso a più materiali, a partire dai libri. Ora tutti hanno accesso a Internet e all’AI anche a scuola. “Penso quindi che questo sia uno sviluppo logico nell’evoluzione dell’interazione tra insegnanti e studenti”, spiega Hovy.
Il compito fine a sé stesso di trasmissione fredda delle informazioni ora può farlo un tutor digitale, e anche molto bene, ma il ruolo di insegnante non si è mai dovuto limitare a questo. “Dobbiamo stimolare pensiero critico, aiutare ad applicare i concetti, insegnare quando fidarsi di una fonte e quando no”, spiega Hovy. La pandemia e il boom dei corsi online hanno mostrato i limiti della didattica senza interazione: “Se bastasse guardare un video, le università non servirebbero più, e invece gli studenti continuano a voler entrare in aula, fare domande, avere uno scambio umano”.
Accogliere, non negare
Lo studio misura le percezioni, non i risultati concreti di apprendimento. La prossima sfida, anticipa Hovy, sarà testare l’impatto reale in classe. “Vediamo un segnale positivo, ma servono esperimenti nel mondo reale”. Chiaramente questi esperimenti concreti presentano notevoli difficoltà di realizzazione: “Servono molti studenti disposti a partecipare. Dobbiamo assicurarci che siano al sicuro, che ne traggano beneficio e di non interferire con la loro istruzione. Questo richiede molti più passaggi che stiamo esplorando e su cui stiamo lavorando. Ciò che è certo è che vogliamo dimostrare che questi tutor siano davvero d’aiuto”.
Il futuro della didattica, insomma, non è una gara tra docenti e chatbot, ma un equilibrio nuovo. “La nostra speranza è che strumenti come MwpTutor servano ad alleggerire il carico degli insegnanti”, conclude Hovy. “L’AI è brava a simulare l’empatia, ma non potrà mai capire davvero uno studente nel suo contesto sociale. Quel compito resta nostro, ed è anche la parte più bella del mestiere”.
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Un chatbot in classe può davvero essere più empatico di un docente in carne e ossa? ultima modifica: 2025-10-07T15:04:01+02:00 da
