– Il libro di Bénédicte Vidaillet, appena tradotto in italiano, è una lettura davvero urticante. La tesi dell’autrice, psicanalista, studiosa dell’organizzazione del lavoro, è che la valutazione seduce i lavoratori perché promette di colmare la mancanza di gratificazione del lavoratore che crede gli sia stato riconosciuto meno di ciò che merita. La valutazione seduce, secondo Vidallet, perché alimenta dimensioni affettive profonde: l’invidia («emozione dolorosa e violenta che scatta nei confronti di un altro che si ritiene abbia ciò che si vorrebbe ottenere per se stessi»), e il narcisismo, associato alla promessa che la valutazione consenta di differenziarsi da competitori inattivi, fannulloni, stanziali, ristagnanti, regressivi, degenerati. Ma la valutazione funziona come una trappola: lungi dal risolverli, alimenta solo i bisogni che afferma di soddisfare. Pubblichiamo qui la postfazione firmata da Francesca Coin.

B. Vidallet, Valutatemi!, traduzione di Davide Borrelli, Mihaela Gavrila e Angela Pelliccia. Novalogos edizioni, 2018 

Il 13 luglio 2006, Bruno Trentin pubblicava su l’Unità un breve articolo sul concetto di merito, dal titolo «Chi comanda nell’impero della meritocrazia». Si trattava di uno scritto semplice e estremamente lucido che descriveva la meritocrazia come un concetto che diventa dominante nella cultura di sinistra a partire dal 1989. Per Trentin, la valutazione incaricata di premiare il merito descrive la tendenza esistente sin dall’Illuminismo a legittimare «la decisione discrezionale di un governante». La capacità, in altre parole, di affiancare al tradizionale processo di certificazione della qualificazione del lavoro un altro ordine di valori che riflette, in ultima istanza, un potere arbitrario, «il potere indivisibile del padrone o del governante», valorizzando, come fattori determinanti, «criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale».

Riprendo questo breve scritto perché secondo me c’è, nello sguardo disincantato del sindacalista Trentin, la capacità di intravedere nella valutazione qualche cosa che molte interpretazioni successive hanno in parte trascurato, l’idea, cioè, che la valutazione debba intendersi, al netto delle interpretazioni estetizzanti che dominano il dibattito contemporaneo, anzitutto come dispositivo squisitamente anti-sindacale. Scriveva Trentin:

«Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni 60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa.»

«Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale»: è questa, in ultima istanza, la definizione che Trentin dà del concetto di valutazione, ed è una definizione dalla quale mi piacerebbe partire per leggere il libro di Bénédicte Vidaillet.

La valutazione è un fenomeno trasversale all’organizzazione del lavoro in ogni settore pubblico e privato – con questo monito l’Autrice inizia la sua introduzione, ricordandoci, cioè, che la valutazione, oggi, non è più circoscritta a specifiche professioni, settori o livelli di inquadramento, ma è «letteralmente ovunque» (p. 5). In ogni suo anfratto, il mercato del lavoro odierno struttura la retribuzione a partire da procedure che valutano la prestazione individuale a partire da obiettivi disegnati dall’azienda, che la giudica sulla base di un processo di monitoraggio continuo dei propri dipendenti reso possibile grazie a due fattori principali: il ripiegamento delle finalità delle nuove tecnologie agli obiettivi aziendali e una incessante e pervasiva insistenza, sul piano culturale, sulla valenza universale degli obiettivi d’impresa, quella specie di contro-rivoluzione culturale che, dagli anni Settanta, ha convinto la società tutta che gli obiettivi quantitativi e qualitativi del management, fossero diventati gli obiettivi stessi del lavoro.

Ed è qui che entra in gioco Bénédicte Vidaillet, docente all’Università di Paris Est Créteil (UPEC) e psicanalista, quando cerca di comprendere in quale modo, e soprattutto perché, questo strano processo di identificazione del soggetto produttivo con gli obiettivi del managementabbia avuto successo: perché, in altre parole, sia diventato lecito credere che la graduale individualizzazione dei rapporti contrattuali fosse nell’interesse di tutti – lavoratori, contribuenti, utenti e privati. Nelle parole di Vidaillet, il problema principale è precisamente capire «come opera su di noi la valutazione, da dove trae la sua potente suggestione, su quali fonti psichiche agisce e che cosa smuove in noi per farcela desiderare» (p. 15). Una domanda, questa, tanto più importante quanto più, secondo Vidaillet, la valutazione non è neutra ma contribuisce «in gran parte a distruggere il nostro desiderio di lavorare, la nostra relazione con l’altro e il nostro stesso ambiente di lavoro» (p. 15).

Vidaillet si basa sulla sociologia, sulla psicologia del lavoro, sull’economia e sul management, nonché, molto, sulla psicoanalisi lacaniana, per dare conto delle ragioni per cui la valutazione, nonostante i suoi «effetti controproducenti e assurdi» (p. 16), riesce ad assoldare complici presentandosi come strumento di riconoscimento e fonte di godimento. I nodi centrali nella sua analisi, in questo senso, sono due. In primo luogo, l’Autrice spiega in che modo la valutazione destruttura e degrada i legami sociali dentro e fuori il luogo di lavoro, e in secondo luogo, si chiede perché la società, ciononostante, ne sia sedotta.

Procediamo, dunque, dalle conseguenze e cerchiamo di capire anzitutto da dove viene, secondo Vidaillet, la capacità distruttiva della valutazione. Vidaillet è particolarmente convincente quando ci riporta esempi del perché la valutazione nuoce alla società. Il fatto è che nel suo affiancare al sistema di inquadramento definito dalla contrattazione nazionale «la decisione discrezionale di un governante», la valutazione induce a perseguire obiettivi distanti o addirittura in contraddizione con le finalità stesse dell’attività svolta. Il caso più clamoroso è forse quello della valutazione della performance medica. Il sociologo Belorgey (2009, 2010), ricorda Vidaillet, si sofferma sull’esempio di Dupré (p. 18), un giovane manager incaricato di ripensare la governance delle strutture ospedaliere francesi, che decide di valutare la performance medica in base a indicatori quantitativi come il numero di pazienti trattati ogni anno e, in particolare, il tempo medio di attesa per paziente, che è al centro delle riforme dei servizi di pronto soccorso. Dopo aver studiato i 93.000 ricoveri avvenuti negli anni 2004-2006, Belorgey giunge alla conclusione per cui, più ridotto è il tasso di attesa dei pazienti in ospedale e più elevato diventa il loro tasso di ritorno nello stesso. L’efficienza aziendale e la riduzione dei costi del management, in questo senso, è in perfetta contraddizione con la qualità della cura ricevuta dai pazienti, in una definizione di eccellenza, per certi versi, patogena, se osservata dal punto di vista dei vantaggi che essa porta alla salute dei pazienti.

La storia di Dupré è solo uno degli esempi che Vidaillet riporta e ben dà misura della sua efficacia argomentativa. Vidaillet, infatti, ci dice con grande maestria che gli obiettivi S.M.A.R.T. che troviamo nei libri di management, quegli obiettivi Specifici, Misurabili, Attingibili, Realistici, Temporalmente definiti (p. 19), nuocciono alla salute di pazienti, utenti e lavoratori. Il problema non sono solo gli utenti nelle strutture sanitarie del servizio pubblico, più generalmente riconducibili alla riforma della pubblica amministrazione spesso ricondotta al New Public Management, ma si estende anche agli altri settori del pubblico e del privato.

È qui che Vidaillet ci offre forse uno degli esempi più utili. L’Autrice richiama un esperimento che è diventato classico in psicologia sociale e racconta come in una scuola siano stati distribuiti dei pennarelli ai bambini che amano disegnare.

Alcuni bambini sono informati in anticipo circa il fatto che riceveranno una ricompensa per il loro disegno (un diploma con un sigillo d’oro e un bel nastro), mentre gli altri continueranno a disegnare senza la prospettiva di una ricompensa finale. Dopo poche settimane si constata che quelli che sanno di ricevere una ricompensa disegnano con meno entusiasmo e che i loro disegni sono di qualità inferiore rispetto a quelli ai quali si è data la consegna di disegnare senza la prospettiva di un premio. La spiegazione fornita dagli psicologi che hanno realizzato questo famoso esperimento è che quando l’interesse del bambino, che fino ad allora non aveva avuto bisogno di giustificazione, inizia a muoversi verso una giustificazione estrinseca, diminuisce il suo interesse intrinseco per l’attività stessa (p. 27).

In questo esempio, la decisione discrezionale del governante coincide con le motivazioni estrinseche attraverso le quali si inducono gli studenti a disegnare sulla base della possibilità di ricevere un incentivo. Le motivazioni intrinseche, ci dice Vidaillet, sono alternative a quelle estrinseche e non complementari (p. 27). Il fatto stesso di ricevere una ricompensa, spiega Vidaillet, diminuisce la motivazione individuale. Mark Fisher diceva di sentirsi sidetracked, sabotato nelle sue priorità quando si trovava costretto a inseguire logiche funzionali a incentivi premiali. Più di quanto pensiamo, la valutazione impone obiettivi che tolgono la libertà di perseguire le proprie priorità, anzi le sabota continuamente. La distinzione tra obiettivi intrinseci ed estrinseci appare, in questo senso, fondamentale per capire la valutazione. Nel riferirsi ai docenti universitari, per esempio, Vidaillet dice incisivamente che «la domanda di valutazione emerge quando si perde la speranza di risolvere i dilemmi che sorgono nel lavoro, quando non si ha più l’energia necessaria per far evolvere l’organizzazione, quando ci si rassegna» (p. 38.). La ricerca del riconoscimento attraverso la valutazione, secondo Vidaillet, nasce precisamente qui, come sintomo di una sconfitta. La seduzione della valutazione pare il sintomo della necessità di compensare la rinuncia a qualsivoglia velleità critica. È quando si rinuncia a lottare per difendere i propri obiettivi etici che la valutazione trionfa come una compensazione desiderabile. «I ricercatori – scrive per esempio Vidaillet – sono tentati di concentrarsi su ciò che conta» (p. 22), ma cedono alla logica del publish or perish perché da quella dipende la capacità di ottenere fondi e avanzamenti di carriera. Arriviamo, così, gradualmente, al secondo punto fondamentale dell’analisi di Vidaillet. L’individuo che si rassegna alla valutazione è un complice sconfitto, ci suggerisce l’Autrice. È un individuo che non nuoce solo a se stesso, ma all’intera società. È un individuo, non a caso, che Vidaillet espone a una critica impietosa.

Dovessi muovere una critica nei confronti dell’appassionata analisi di Bénédicte Vidaillet, la inserirei qui. L’Autrice, infatti, si serve di Lacan per fornirci un quadro psicanalitico del soggetto che ambisce ad essere valutato. Il soggetto complice della valutazione, secondo Vidaillet, è un soggetto colpevole. Il suo primo peccato è l’invidia, «emozione dolorosa e violenta che scatta nei confronti di un altro che si ritiene abbia ciò che si vorrebbe ottenere per se stessi». L’invidia, scrive Vidaillet, è un sentimento fondato sull’ostilità nei confronti dell’altro. È una dimensione affettiva anti-sociale, l’invidia, «un’emozione estremamente pericolosa per il gruppo, come sanno da tempo le società tradizionali, che gli etnologi hanno dimostrato essere organizzate soprattutto per limitare e contenere i fenomeni di invidia» (p. 28). L’altra dimensione affettiva su cui Vidaillet torna spesso è il narcisismo, la promessa di empowerment garantita a chi si fa complice delle procedure di valutazione quasi che l’aderenza ai suoi obiettivi consentisse di accedere a una sorta di nuova emancipazione, un futuro scintillante che finalmente consente di differenziarsi da competitori stanziali, ristagnanti, regressivi, degenerati (p. l49). Per Vidaillet tali dimensioni affettive vanno comprese alla luce di un’altra categoria di matrice lacaniana, la mancanza. Il problema, per Vidaillet, è il godimento perduto, al punto che l’individuo dedica gran parte della sua energia psichica a tentare di compensarlo (p. 68). In questo processo, chi crede gli sia stato riconosciuto meno di ciò che merita si rivolge alla valutazione per colmare la mancanza di gratificazione. Vidaillet non entra nel merito delle politiche macro-economiche, né nel merito della relazione che esse hanno con la valutazione a partire dalla svolta neoliberale iniziata alla fine degli anni Settanta. Ci dice però, ricorrendo a Lacan, che l’individuo che ricorre alla valutazione è un individuo che tenta di compensare la mancanza. In questo contesto, l’altro è un individuo da normare, è un rivale di cui sbarazzarsi per accorciare le distanze, per dimostrare il proprio valore, per «capovolgere le posizioni» e «prendersi la rivincita» (p. 73). È assai penetrante il quadro psicanalitico che ci presenta l’Autrice, in particolare quando sottolinea come spesso la valutazione induca a sperare di rovesciare la gerarchia esistente ridefinendo la propria posizione in relazione ai pari. Non vi è un’analisi critica delle ragioni per cui il riconoscimento debba essere ottenuto a discapito di altri. Il narcisista, banalmente, insegue il riconoscimento per differenziarsi dall’«inefficiente», da «quello che costa alla collettività», dall’«altro, il prossimo, il collega fannullone». Per Vidaillet, la mancanza è il sintomo della «fantasia che esiste un altro che ruba il godimento approfittando di risorse che non merita» (p. 130) e da questa interpretazione nasce «una fantasia primigenia con quella basata sul sentimento di invidia, un discorso di mancanza che rafforza questa fantasia e l’ideologia della valutazione, che pretende di fornire una soluzione per individuare chi approfitta e dare a ognuno ciò che merita» (p. 130).

Il fatto è che la mancanza non è solo un tema della psicanalisi. È una questione materiale. Viene talvolta da invocare un Anti-Edipo dentro la critica alla valutazione, per interloquire con l’Autrice oltre Lacan. La critica psicanalitica della mancanza, infatti, lascia sullo sfondo le cause materiali della privazione. La mancanza non è, dal punto di vista materiale, una condizione innata, ma conseguenza di politiche macroeconomiche anti-redistributive che, a partire dalla fine dell’epoca fordista, si servono precisamente della valutazione per destrutturare la relazione salariale e tagliare la spesa sociale. Vidaillet non aiuta a capire la violenza economica di cui fa esperienza l’individuo che soffre la mancanza. L’epoca neoliberale è stata, effettivamente, intelligente nel sottrarre alla società la capacità di riconoscere le origini macroeconomiche dell’impoverimento esercitato contro la classe lavoratrice. Il narcisista, in questo senso, soffre la mancanza ma ne attribuisce le cause al collega – un fannullone –, al vicino di casa – un individuo che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi –, al dipendente pubblico – un furbetto del cartellino. La critica al singolo, tuttavia, non ci aiuta molto a riconoscere le cause squisitamente politiche che hanno portato alla radicale redistribuzione della ricchezza avvenuta negli ultimi quattro decenni. Ci lascia con i sintomi e quel surreale senso di eternità del discorso neoliberale che non cessa di fare capolino tra le pagine. Bisognerebbe svolgere una analisi di classe della valutazione, per evidenziare come, dietro la mancanza che attanaglia in modo trasversale i lavoratori del pubblico e del privato vi sia una violenza economica che ha avuto cause squisitamente materiali. Torniamo qui al lucido testo di Trentin, che nel suo approccio materialista completa l’analisi di Vidaillet, ricordandoci che i sintomi della valutazione si annidano nella psiche sociale e soggettiva, ne intercettano le debolezze e le frustrazioni, stimolano, indubbiamente, i nostri più infantili opportunismi, ma le loro cause esondano la condotta individuale. L’individualismo metodologico e la de-alfabetizzazione politica prodotti dall’epoca neoliberale, a ben vedere, non possono essere completamente denudati dal metodo psicanalitico, perché la loro unità d’analisi pare troppe volte coincidere con la stessa unità di misura individuale cui il neoliberalismo ha ridotto la società. Bisogna tornare all’economia politica per capire come hanno fatto a farci cedere così platealmente le tutele e i diritti conquistati in decenni di lotte sociali. Potremmo forse, in questo modo, completare l’affascinante analisi di Vidaillet e rispondere a una domanda centrale che resta aperta: come fare a riprenderci non solo le tutele sociali ma le finalità stesse della vita collettiva?

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