Vivalascuola. Quando la scuola non è più un luogo di educazione

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di Giorgio Morale, Vivalascuola, La poesia e lo spirito, 11.6.2018

– Nell’augurare a studenti, docenti e a tutti i lavoratori della scuola buone vacanze, vivalascuola fa un bilancio dell’a.s. 2017-2018. Sono state costruite nuove scuole e tutte, vecchie e nuove, ora sono belle, sicure e ben attrezzate e rendono piacevole insegnare e apprendere. I fondi per l’istruzione sono stati portati alla media europea, e così gli stipendi degli insegnanti, che vedono riconosciuto il loro ruolo sociale. Sono state abolite le prove Invalsi e l’alternanza scuola lavoro, rivalutando l’attività didattica e mettendo al centro di essa l’amore per il sapere e la conoscenza. Le classi pollaio sono state abolite e sono state create nuove figure professionali per il sostegno, il recupero e la valorizzazione delle eccellenze, così tutti i docenti possono insegnare vicino ai luoghi di residenza. E’ stato possibile lavorare con tempi lunghi e distesi, dedicare attenzione alla relazione tra chi insegna e chi apprende, realizzare una didattica davvero personalizzata, e ciò ha reso possibile il pieno successo formativo di tutti gli studenti… Ci piacerebbe fare questo bilancio di fine anno, e speriamo di poterlo fare quanto prima. Per intanto questa è solo l’introduzione al bilancio vero, opera di Giovanna Lo Presti.

Bilancio dell’anno scolastico 2017-2018. Quando la scuola non è più un luogo di apprendimento e di educazione tende ad assomigliare ad un carcere
di Giovanna Lo Presti

Indice
(Clicca sul titolo per andare subito all’articolo)

  • Bilancio dell’a.s. 2017-18. Una premessa. La scuola non è una priorità. Che sia meglio così?
  • Settembre, andiamo, è tempo di migrare…
  • Ottobre: vaccinare o non vaccinare?
  • Novembre: ci sarà il rinnovo del contratto?
  • Dicembre: la Legge 107 fa danno anche ad Addis Abeba
  • Gennaio: anno nuovo, guai vecchi
  • Febbraio: la scuola della violenza
  • Marzo: la scuola della violenza 2
  • Aprile: rinnovo delle RSU
  • Maggio: i “nuovi” quadri orario dei professionali
  • Giugno 1998, vent’anni prima
  • Giugno 2018, vent’anni dopo
  • Conclusione. Quando la scuola non è più un luogo di apprendimento e di educazione tende ad assomigliare ad un carcere
  • Risorse in rete

 

La scuola non è una priorità. Che sia meglio così?

Iniziamo dalla conclusione: l’anno scolastico 2017-2018 finisce quasi in contemporanea con l’esordio, preceduto da un parto sofferto, del “governo del cambiamento. Per ora, rispetto alla scuola, il “governo del cambiamento” ha portato una sola novità: nel discorso programmatico al Senato, il neo-primo ministro Conte non ha pronunciato la parola “scuola; si è parzialmente ravveduto alla Camera, laddove si è limitato a dire: «Abbiamo ragionato con tanti stakeholders, interverremo sui nodi critici della legge 107». Quali saranno, secondo il nuovo governo, i “nodi critici della buona scuola”? Vedremo – se proprio dobbiamo trarre pronostici da questi primi passi, possiamo concludere che:

a) la scuola non è il primo tra gli interessi del nuovo governo, anche se il leader del M5S Di Maio ne ha ribadito la “centralità”. Questa non è, va da sé, una novità: è l’ennesima volta che la scuola viene “messa al centro” ed i risultati li abbiamo visti.

b) La parola stakeholders non ci piace proprio, sia perché è indebitamente presa a prestito dall’insopportabile gergo economicista che, nella sua versione straniera, da anni ci rammenta, in un colpo solo, la subordinazione della scuola all’Impresa e la parallela omologazione del mondo all’american way of life, sia perché a scuola non ci sono “tenutari di interessi” e ridurre lo studente a “cliente” è stata una delle peggiori tendenze degli ultimi decenni.

Ma insomma, lasciamo che il “governo del cambiamento” inizi davvero ad agire. Oggi ci viene in mente che il governo Renzi esordì con un bel passaggio sulla scuola, pronunciato da quello che allora era ancora Matteo il Giovane. Lo voglio riportare, perché quel febbraio 2014 sembra stellarmente lontano, ma ciò che accadde ha ancora qualcosa da insegnarci. Dunque, con tecnica consumata degna di un attore da avanspettacolo, il neo-premier volgeva lo sguardo sull’assemblea e affermava:

Noi pensiamo che non ci sia politica alcuna che non parta dalla centralità della scuola. Mi piacerebbe che chi ha la presunzione di avere la verità in tasca avesse la possibilità di confrontarsi con le insegnanti delle scuole e le famiglie nella loro vita di tutti i giorni perché l’idea che da questa parte ci sia la casta e dall’altra ci siano i cittadini si è un po’ rovesciata. Lo dico a una parte di questo Parlamento. Chi di noi tutti i giorni ha incontrato cittadini, insegnanti, educatori e mamme sa perfettamente che c’è una bellissima e straordinaria richiesta che è duplice. Da un lato si chiede di restituire valore sociale all’insegnante e questo non ha bisogno di alcuna riforma, ma di un cambio di forma mentis. Non ha bisogno di denaro, riforme, commissioni di studio; c’è bisogno del rispetto che si deve a chi quotidianamente va nelle nostre classi e assume su di sé il compito struggente e devastante di essere collaboratore della creazione di una libertà, della famiglia e delle agenzie educative. Il compito di un insegnante è straordinario. Ci avete mai parlato con gli insegnanti e ascoltato quello che dicono oggi?”.

Nulla è stato rispettato, tranne il fatto che “restituire valore sociale all’insegnante” “non ha bisogno di denaro”. Per il resto, il governo Renzi ha calato sulla testa di studenti ed insegnanti l’ennesima parodia di riforma, parodistica sin dal titolo “La buona scuola”.

Conclusione: le premesse del nuovo governo rispetto alla politica scolastica erano pessime nel 2014 e sono pessime (ancorché scarne) nel 2018. Ancora una volta, starà a chi si assume il “compito struggente e devastante” (così disse lo sfacciato Matteo) di insegnare, il dovere di reagire per difendere, nello stesso tempo, il proprio lavoro e la scuola pubblica.

Ora, in flash back, ripercorriamo l’anno scolastico appena concluso.

 

Settembre, andiamo, è tempo di migrare…

Li abbiamo visti anche questo settembre, nelle nostre scuole, i docenti con il trolley, sempre pronti a partire per ricongiungersi con le loro famiglie lontane. I termini con cui si è indicato il fenomeno dell’afflusso massiccio di docenti del Sud al Nord, in seguito al piano di assunzioni legato alla “Buona scuola” sono vari. I più comuni, “esodo” e “deportazione”, suonano sinistri: i docenti hanno, finalmente, ottenuto un posto a tempo indeterminato, ma hanno dovuto lasciare il loro luogo di residenza e le proprie famiglie. Tenuto conto che l’età media dei neo-assunti supera i quarant’anni e che la maggior parte dei docenti è donna, si è imposto a molte famiglie un sacrificio notevole. Bisogna però confrontarsi con un dato oggettivo: la maggior parte delle cattedre sono nelle regioni del Nord. I numeri, ad inizio dell’anno scolastico 2017-2018 erano i seguenti: 36.000 posti liberi dal primo settembre 2017 e di questi ben 22.000 al Nord. Per giunta al Sud sono in calo anche gli studenti: tra il 2015-2016 e il 2017-2018 gli alunni sono diminuiti di 91.396 unità.

Già nell’agosto del 2017 le proteste dei docenti che desideravano tornare, com’è naturale, alle loro case e alle loro famiglie era stata forte: in Sicilia ed in Campania chi protestava denunciava, a conclusione delle nomine annuali, l’esistenza di posti liberi, soprattutto di sostegno, che sarebbero andati a supplenti annuali, talvolta nemmeno specializzati sul sostegno. C’è un altro importante elemento di disagio da mettere in evidenza: emigrare in una città del Nord per insegnare, in cambio di uno stipendio che non tocca i 1.400 euro per un docente delle superiori, obbliga il neo-assunto a fare i salti mortali per viveredignitosamente. Lo capiscono tutti, non c’è bisogno di spiegarlo; ciò non toglie che al primo spostamento di massa di insegnanti, legato alle assunzioni della “Buona scuola”, l’allora direttore dell’Unità, Fabrizio Rondolino, così commentasse:

Per i nostri insegnanti precari essere assunti a tempo indeterminato – cioè avere tredici stipendi all’anno per quattro ore di lavoro al giorno, tre mesi di vacanza, l’assistenza sanitaria, la pensione e il diritto a non essere licenziati – e doversi spostare da casa è un’offesa, un affronto, addirittura (mi vergogno a scriverlo) una “deportazione”. Dei tanti scandali che offendono il nostro sfortunato Paese, a me questo sembra il più infame, e il meno scusabile”.

C’è una via d’uscita? Certo che sì, visto che il nostro Sud avrebbe bisogno di nidi, scuole materne, tempo pieno (quasi inesistenti) e ci sarebbe pure l’urgenza di frenare la preoccupante dispersione scolastica. Gli insegnanti ci sono: perché non li si mette alla prova come primo motore di quella ricostruzione civile di cui il nostro Sud ha estremo bisogno? Basterebbe, come predicano i nostri politici, “mettere la scuola al centro”.

COM’È ANDATA A FINIRE?

Da settembre, ben poco è cambiato, ma si è confermata la deroga al vincolo triennale di permanenza nella provincia di immissione in ruolo prevista dalla “Buona scuola” (la misura viene approvata a dicembre 2017).

 

Ottobre: vaccinare o non vaccinare?

Il problema era iniziato a fine luglio 2017, con l’approvazione in Senato del “decreto Lorenzin”: con lo sconto di due vaccini (da 12 obbligatori a 10: ma perché? Un atto di arbitrio nell’arbitrio, evidentemente) si sanciva l’obbligo per i genitori di vaccinare i figli. Entro il 10 settembre 2017 per i nidi e le materne ed entro il 31 ottobre per la scuola dell’obbligo i genitori avrebbero dovuto dimostrare l’avvenuta vaccinazione o l’omissione, il differimento o l’immunizzazione. Tutto documentato, naturalmente.

Il Paese si divide in Vax e No Vax; si deve assistere ad indecorosi confronti televisivi in cui, con la scusa di informare la popolazione, i sostenitori delle vaccinazioni lanciano strali contro gli anti-vaccinisti, in un clima emotivo da caccia alle streghe, che confonde le già confuse idee che il cittadino medio ha sui vaccini. La scuola è nell’occhio del ciclone. Una cosa è chiara: al nido e alla materna i bambini non vaccinati non verranno accettati (il termine perentorio sembra il 15 marzo 2018); nella scuola dell’obbligo i genitori se la caveranno, invece, con una multa da 100 a 500 euro. Alla faccia dell’“immunità di gregge” che, in autunno, diventa espressione che corre sulla bocca di tutti.

Per questa vicenda, come purtroppo per molte altre, vale il celebre aforisma di Flaiano: “La situazione è grave ma non è seria”. E come potrebbe, visto che il ministro della Salute è quella stessa persona che, sbraitando contro la “disinformazione” aveva sostenuto di fronte a più telecamere che a Londra, nel 2013, erano morti a causa del morbillo270 bambini?

COM’È ANDATA A FINIRE?

Qualche “morto” sul campo c’è stato (bambini non accettati alla scuola materna a fine anno scolastico); il gran blaterare a vuoto è continuato ed il nuovo governo propone una linea cauta, per bocca del Ministro della Sanità Giulia Grillo:

Pur con l’obiettivo di tutelare la salute individuale e collettiva, garantendo le necessarie coperture vaccinali, va affrontata la tematica del giusto equilibrio tra il diritto all’istruzione e il diritto alla salute, tutelando i bambini in età prescolare e scolare che potrebbero essere a rischio di esclusione sociale“.

Sempre meglio della favola per allocchi dei 270 bambini morti a Londra per il morbillo nel 2013.

 

Novembre: ci sarà il rinnovo del contratto?

Il Contratto dei lavoratori della scuola è scaduto nel 2009; si veleggia ormai verso un decennio di blocco degli stipendi per tutto il pubblico impiego. Negli anni della crisi determinata dalla voracità del finanzcapitalismo il lavoro dipendente, ed in particolare il lavoro dei dipendenti pubblici, è entrato in uno stato di estrema sofferenza. Preceduta dalla campagna ideologica contro i “fannulloni”, sorretta dalla grancassa della “meritocrazia”, la stretta sui pubblici dipendenti è stata letale: contratto fermo al 2007, blocco degli scatti di anzianità soltanto parzialmente rientrato (con danni economici non da poco), lungaggini nel pagamento della buonuscita. Insomma, i tre milioni di dipendenti pubblici sono stati usati dal loro datore di lavoro, lo Stato, per un risparmio ingiusto e continuativo.

Il 9 novembre 2017 inizia la trattativa all’Aran per il rinnovo del CCNL del comparto “Istruzione e ricerca”: i fondi a disposizione sono pochi, la richiesta sindacale di far transitare sul rinnovo del contratto le risorse per i bonus della “Buona scuola” (oltre mezzo miliardo di euro tra Carta del Docente e “bonus al merito”) non sembra destinata ad aver successo. Sono passati quasi due anni e mezzo da quando la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il blocco del contratto dei dipendenti pubblici: ecco un bell’esempio di “democrazia autoritaria.

COM’È ANDATA A FINIRE?

Male, male, male: il CCNL è stato firmato il 19 aprile 2018 ma l’aumento del 3,48% sullo stipendio tabellare, dopo quasi un decennio di blocco, è un insulto a tutti i lavoratori della scuola. Gli arretrati (il contratto parte dal 2016) decurtati quanto basta sono stati pagati a fine maggio. A giugno gli aumenti stipendiali. In conclusione: una beffa, per la quale non ci sono state però proteste adeguate.

 

Dicembre: la Legge 107 fa danno anche ad Addis Abeba

Per il mese delle feste natalizie, una notizia lieve ci vuole: riprendiamo il titolo di un articolo apparso sul sito della FLC-CGIL, che presenta il triste caso dell’Istituto Italiano Statale Omnicomprensivo “Galileo Galilei” di Addis Abeba che, il 4 dicembre 2017, manda a vari organi istituzionali, sindacali e di stampa una lettera aperta. Eccone un passaggio:

“A più di sei mesi dall’entrata in vigore del D.Lgs. 64/17 (31/05/17) “disciplina della scuola italiana all’estero”, e del successivo D.M. n° 1615 del 4 settembre 2017 […] l’applicazione dei citati provvedimenti normativi dimostra che le scelte politiche operate dal legislatore risultano improvvide e inadeguate. La scelta unilaterale del MAECI/MIUR di violare i diritti contrattuali dei docenti obbligandoli al raggiungimento del massimo numero di ore di insegnamento – anche contro la loro volontà (articolo 23 del citato D.Lgs.) – oltre che generare conflitti e ricorsi al giudice del lavoro, costringe i docenti titolari a insegnare discipline che non hanno mai insegnato prima, e avrà prevedibili ricadute negative sulla qualità dell’offerta formativa delle scuole italiane all’estero e, più in generale, sull’organizzazione del lavoro dei docenti.

[…] Il legislatore ha sostituito la nomina di docenti provenienti dall’Italia sugli spezzoni (ovvero sulle ore che non costituiscono cattedra) con la stipula di contratti – anche a tempo indeterminato – con personale docente reclutato localmente che, in prima battuta, deve possedere il solo requisito minimo della residenza nella sede. Il rischio concreto è che vengano reclutati docenti senza alcuna conoscenza del sistema scolastico italiano e delle sue peculiarità in termini pedagogico/didattici, specie in sedi particolarmente disagiate come Addis Abeba e Asmara”.

Potenza della “Buona scuola”! Fa danno anche all’estero!

COM’È ANDATA A FINIRE?

La protesta non pare abbia avuto l’esito voluto. L’ultima notizia che si trova su Internet e che riguarda la scuola italiana di Addis Abeba è questa: “Grande successo della Scuola Italiana di Addis Abeba al “Mandorlo In Fiore 2018″. Vuol dire che studenti ed insegnanti ce l’hanno ancora fatta a partecipare alla famosa Sagra che si tiene ad Agrigento. La revisione della legge 107 è nel “contratto” giallo-verde; staremo a vedere.

 

Gennaio: anno nuovo, guai vecchi

L’8 gennaio scioperano e protestano davanti alla sede romana del MIUR i diplomati magistrale. È il primo atto di una lunga serie di proteste, sostenute in modo tiepido (o ignorate) dai sindacati “maggiormente rappresentativi” e appoggiate con convinzione dal sindacalismo di base e da gruppi autorganizzati. Maestre e maestri coinvolti ricevono calorosa solidarietà dai loro piccoli allievi, dai genitori, da molti personaggi pubblici. La vicenda delle maestre e dei maestri diplomati, di cui molto si sta parlando da quando, il 20 dicembre scorso, il Consiglio di Stato a sezioni riunite ha espresso un verdetto che nega loro diritti che ben sette pronunciamenti di singole sezioni del Consiglio di Stato stesso avevano invece riconosciuto, porta inevitabilmente a riflettere sull’idea generale di giustizia.

Nel nostro Paese di legulei ed azzeccagarbugli si è assai distanti dal dura lex, sed lex; la consistenza della norma è tale da poter soltanto essere paragonata ad un fluido o ad un materiale elastico pronto ad essere stiracchiato nella direzione che fa più comodo all’organo giudicante, il cui essere super partes appare spesso del tutto discutibile. I tempi della giustizia, inoltre, non sono umani ma geologici e fanno in modo che anche una sentenza “giusta” ma tardiva si trasformi in uno sberleffo per il cittadino. Nel caso specifico le buone ragioni delle diplomate e dei diplomati magistrali consistono proprio nel fatto che una normativa poco chiara e tempi di ricorso molto lunghi abbiano alimentato e poi dato corpo a legittime speranze. Uno Stato serio avrebbe per tempo e con norme inequivocabili risolto la questione del valore abilitante del diploma magistrale conseguito prima del 2002; e non si vuol dire che si dovevano “graziare” i possessori di quel titolo di studio, avvantaggiandoli indebitamente rispetto a chi stava, nel frattempo, seguendo un percorso universitario.

Bisognava però dare alla faccenda un orientamento netto e mettere fuori dalle aule scolastiche in tempi brevi (non più di tre anni) tutti coloro che non fossero stati in grado di dimostrare, con modalità stabilite, l’idoneità all’insegnamento. La stessa accusa di tardività del ricorso, che è uno degli argomenti principi usati nella sentenza del Consiglio di Stato contro i ricorrenti, si dovrebbe ribaltare ed addebitare proprio al MIUR, che non è stato in grado di far a suo tempo sufficiente chiarezza e che è quindi il primo responsabile della gragnuola di ricorsi, poiché nessun ricorso si può dare senza falle nella normativa. Arrivati a questo punto, però, le ragioni stanno tutte dalla parte di lavoratori e lavoratrici che da anni, ormai, lavorano nella scuola.

Nel mese di gennaio la protesta si fa intensa e raccoglie consensi inaspettati: il 14 gennaio 2018, anche Luciana Littizzetto, dalla tribuna di Che tempo che fa solidarizza con le maestre.

COM’È ANDATA A FINIRE?

Il 2018 ha visto ancora numerose proteste delle maestre e dei maestri diplomati, che, è naturale, temono la perdita del loro posto di lavoro. Per ora non è finita. Ultime notizie: Di Maio ha ricevuto in dono una magliettada parte del comitato dei diplomati magistrali, che il vicepremier ha promesso di consegnare al ministro Bussetti. Inoltre il PD il 13 giugno presenterà in Senato il disegno di legge sulle “Disposizioni in materia di contrasto alla povertà educativa e di reclutamento per la scuola dell’infanzia e per la scuola primaria”. In sintesi: piano di assunzione triennale e istituzione di Graduatorie di Merito Regionali (GMR) sia per la scuola dell’infanzia che per la scuola primaria. Alle GMR accedono, dopo il superamento di una prova orale selettiva, i laureati in scienze della formazione primaria e i diplomati magistrali con titolo conseguito entro il 2001/2002 che abbiano svolto almeno tre anni di servizio negli ultimi otto anni scolastici.

Febbraio: la scuola della violenza

L’anno scolastico appena concluso passerà negli annali come quello in cui la violenza all’interno delle aule ha proposto quasi quotidianamente materia per la cronaca. Delle non poche maestre colpevoli di aver malmenato, strattonato, rimproverato con eccesso di rigore i loro piccoli alunni si è occupato, con molta più cognizione di causa di altri, il dottor Lodolo D’Oria, che ha messo bene in rilievo alcune incongruenze nei procedimenti a carico delle maestre, spesso videoregistrate, a loro insaputa, per interi mesi. Riporto una riflessione del dottor Lodolo D’Oria:

In una circostanza mi sono imbattuto in un preventivo per l’affitto e installazione delle telecamere che documenta i costi cui vanno aggiunti quelli inerenti il personale impiegato per la sbobinatura e l’azione legale della Autorità Giudiziaria. I costi per l’indagine superano decisamente la decina di migliaia di euro, senza contare le spese che dovrà sostenere l’indagato. Siamo certi che sia proprio necessaria questa spesa di denaro pubblico o sarebbe convenuto una azione/procedura interna alla scuola? In molti casi ho potuto constatare che i genitori che avevano sporto denuncia non avevano né parlato con le maestre, né tantomeno col dirigente scolastico e i suoi collaboratori. Sarebbe dunque bene che l’Autorità Giudiziaria rinviasse nelle opportune sedi coloro che cortocircuitano i referenti/responsabili dell’istituzione scolastica”.

Perciò questo è un altro esempio di quanto la crescente delegittimazione della scuola alimenti paure, talvolta eccessive, nei genitori i quali, invece di cercare il colloquio ed il confronto non trovano nulla di meglio che rivolgersi alla Magistratura.

Moltissimi sono stati, di contro, i gesti di violenza subiti da insegnanti, sia da parte degli studenti sia da parte dei genitori. Proprio nel mese di febbraio Massimo Gramellini coronava con l’aureola della santità una professoressa sfregiata da un suo studente. Riporto tal quale ciò che scrissi allora:

“Leggendo il commento di Massimo Gramellini dedicato al caso della maestra ferita al volto con un coltello da un suo studente minorenne, ho consolidato l’idea che la nostra è una società allo sbando. E non mi riferisco al fatto in sé, cioè al deprecabile atto di teppismo compiuto da un ragazzino, ma proprio al commento di un giornalista colto e intelligente come Massimo Gramellini il quale, sapendo ben usare le armi della retorica non trova di meglio che santificare l’insegnante ferita: Santa prof, così si intitola la sua “tazzina di parole” sul Corriere.“Come definireste l’insegnante della provincia di Caserta capace di perdonare il ragazzo che le ha tagliato la faccia con un coltello, e di mormorare dispiaciuta «forse con lui abbiamo fallito»?”. Non certo come una fanatica, non certo come una persona malata di “buonismo” suggerisce Gramellini, che conclude: “C’è una sola persona che può continuare ad amare incondizionatamente chi le ha fatto del male e manco lo capisce. Una madre. Negli abissi della scuola italiana nuotano tante di queste sante laiche, che considerano i nostri figli come figli loro. Non vedendole, ci riduciamo a dubitare che esistano. Fino a quando un episodio di cronaca ne fa venire una a galla”.

Il caso vuole che il giorno prima la “tazzina di parole” gramelliniana fosse dedicata ad un’altra maestra, licenziata per manifesta ignoranza come in certe barzellette, scriveva “squola” con la “q”. Conclusioni del nostro:

Qualcuno dirà che nel Paese in cui la ministra dell’Istruzione non ha un diploma di sc(q)uola superiore tutto è plausibile. Ma una maestra è più importante di una ministra. Plasma il futuro dei bambini. Sempre che riesca a coniugarlo”.

La contiguità temporale di Viva la squolaSanta prof rende palese quel che forse non avremmo colto: l’inopportunità di chiacchierare di scuola a ruota libera, sulla scorta di un frusto buon senso comune. La “santa prof”, ammesso che abbia pronunciato la frase che tutti i giornali hanno riportato, soffre di uno dei mali più pericolosi per un insegnante: la sopravvalutazione del proprio ruolo, il delirio di onnipotenza, l’idea che il contesto in cui si opera sia modificabile dalla propria volontà. È la sindrome del professor Keating, il protagonista de L’attimo fuggente, film che, non a caso, riscosse tanti consensi proprio tra gli insegnanti. Questo non vuol dire che l’insegnante non debba avere l’ambizione di incidere sui suoi studenti; vuol dire invece che un buon insegnante è anche un bravo diagnosta e sa che non ce la può fare in qualsiasi contesto ed in qualsiasi condizione.

Ma troppi insegnanti non amano denunciare i limiti del loro ambito lavorativo, non amano sottolineare quanto il mondo esterno faccia pressione sui giovani studenti. Non arrivano a pensare che ci sia una differenza tra il cedere le armi e il denunciare la crisi educativa galoppante di cui essi stessi non sono né la causa né la cura; si rifiutano quindi di fare ciò che soltanto loro potrebbero fare, di dare cioè una descrizione attenta e professionale del problema, proponendo strategie per uscire dal vicolo cieco in cui è finita gran parte della scuola italiana. Se ne stanno lì, troppi insegnanti, a subire i colpi e i dardi dell’avversa fortuna e si rifiutano di fare un’analisi del sistema, temendo forse di dare una cattiva immagine di sé nel momento in cui dovessero denunciare i limiti materiali della loro professione. Difendono ottusamente se stessi e la propria scuola, che deve essere difesa ad ogni costo, stante il clima di stupida concorrenza tra istituzioni scolastiche, che è uno degli effetti collaterali dell’imperante “meritocrazia” e dell’autonomia scolastica.

Per porre un qualche rimedio alla conclamata crisi educativa dei nostri tempi, cosa propone l’opinion maker Gramellini? Il “cuore di mamma”, la prof versione “santa laica” – ce ne sono tante che nuotano “negli abissi della scuola italiana”! Faccio notare che parecchie nuotano, altre galleggiano appena, altre ancora si avviano tristemente a sprofondare in quegli abissi perché non reggono la pressione di un lavoro stressante, perché hanno uno stipendio inadeguato che le obbliga a farsi carico, oltre che del loro compito di insegnanti, di tutto il lavoro domestico, perché hanno l’età per essere nonne ma devono ancora lavorare per dieci anni. Ma che tristezza essere ridotte a “sante laiche”! Che tristezza essere relegate (con tutte le buone intenzioni del mondo, per carità!) in un ruolo che è quello del lavoro di cura alla persona. Anche il più umile maestro della più sperduta scuola dovrebbe aspirare ad essere, appunto, un maestro o almeno un buon insegnante. Sfortunato il Paese che non onora i propri maestri e che li riduce a santi, sfortunato anche perché dimostra di essere un Paese che ha bisogno di eroi. Nella sostanza, non è un Paese serio, se no rinuncerebbe a sbattere in prima pagina cattive e (troppo) buone maestre e comincerebbe davvero ad occuparsi del degrado della nostra società e della nostra scuola, che vanno, inesorabilmente, di pari passo.

 

Marzo: la scuola della violenza 2

Mi limito alla citazione di un collage di titoli apparsi sui nostri giornali nel periodo settembre 2017-marzo 2018, messo a punto dal giornalista dell’Internazionale Claudio Rossi Marcelli: “Piacenza, alunno di prima media manda la prof all’ospedale”; “Shock a Foggia: genitore di un alunno picchia il vicepreside”; “Picchia la prof che gli requisisce il cellulare: sospeso studente fiorentino”; “Legano l’insegnante alla sedia con lo scotch e la prendono a calci in un istituto superiore di Alessandria”; “Palermo: pugno alla maestra del figlio, si era lamentata per le assenze”; “Cesena, studente di scuola media sferra un pugno sul naso alla professoressa, senza motivo”; “Verona, litiga col docente e lo aggredisce in classe: poi picchia il compagno”; “Mestre, genitore come una furia a scuola: maestra aggredita si sente male”; “Maestra napoletana schiaffeggiata e presa per i capelli dalla madre di un alunno”; “Treviso, alunno rimproverato a scuola: i genitori picchiano il professore”; “Siracusa, professore picchiato a sangue dai genitori, è in ospedale con una costola rotta”; “Insegnante di matematica aggredito dal genitore e dal fratello di un alunno”. “Caserta, genitori picchiano la maestra della figlia di 4 anni. Aggredita per aver corretto un esercizio di ortografia”; “Cagliari, rimprovera uno studente che usa il cellulare: docente picchiata”.
C’è di che riflettere.

COM’È ANDATA A FINIRE?

Questo è un problema serio e si risolverà soltanto quando la scuola verrà vista da tutta la società come un luogo molto importante, in cui lavorano persone che devono essere rispettate, in tutti i sensi. Va da sé che il rispetto bisogna meritarselo. Va da sé che è meglio mettere il lavoratore in condizione di meritare quel rispetto. Quindi: a) attenzione alla cultura e non all’aspetto burocratico-formale del lavoro dell’insegnante; b) lotta alla “meritocrazia come elemento di conflittualità non auspicabile tra colleghi; c) educazione alla nonviolenza e cioè ripresa dei temi forti dell’educazione libertaria; d) rivalutazione dell’insegnamento delle materie umanistiche e non subordinazione delle discipline tecnico-scientifiche alla logica del “mercato del lavoro”; e) recupero della gratuità del sapere. Non è che l’inizio di un catalogo che comprende molti altri punti.

 

Aprile: rinnovo delle RSU

Il 17, 18, 19 aprile 2018 si è votato per il rinnovo delle RSU. I risultati danno da pensare: tenuto conto che la sottoscrizione ufficiale del CCNL avviene il 19 aprile ma ormai è tutto noto rispetto agli accordi presi, stupisce che i lavoratori della scuola abbiano, ancora una volta, dato credito alle forze sindacali che, dopo un decennio di blocco delle retribuzioni, hanno ottenuto per i loro rappresentati un misero aumento del 3,48%. Le stime più caute danno al 15% l’aumento del costo della vita nel decennio 2007-2017; quindi il 3,48% di aumento copre a malapena un quarto del dovuto. Eppure i lavoratori della scuola non si sono “vendicati” una volta chiamati alle urne: l’unica a perderci in modo sensibile è la FLC-CGIL, che si attesta attorno al 26% (-4% rispetto al precedente rinnovo).

Gli altri sindacati variano di poco le posizioni precedenti, con una (per me) incredibile conferma di UIL e CISL. Chi fa davvero il grande balzo in avanti è l’ANIEF, che passa dal 3,4% al 6,6%. Da questi dati si possono trarre due considerazioni: la rassegnazione di docenti ed ATA è grande e non addebita all’inerzia dei sindacati “maggiori” il pessimo esito del recente rinnovo contrattuale; se proprio si deve cambiare, meglio affidarsi a quei sindacati che, come l’ANIEF, praticano “la via legale al sindacalismo”, proponendo ai propri iscritti un ricorso dopo l’altro per ottenere diritti negati. In tutt’e due casi l’idea che i lavoratori si possano fare parte attiva per cambiare l’assetto del proprio lavoro è flebile quanto un lume di candela.

COM’È ANDATA A FINIRE?

Dai siti sindacali dei sindacati che hanno avuto la maggior responsabilità nella firma del CCNL:

FLC-CGIL: “Elezioni RSU 2018: a scrutinio ultimato, la FLC CGIL si conferma primo sindacato nel Comparto Istruzione e Ricerca. Una grande prova di democrazia e una forte partecipazione al voto in tutti i settori pubblici del Paese”. Hanno incassato la perdita secca del 4% con imperturbabilità.

Cisl Scuola, per bocca della segretaria nazionale Maddalena Gissi: “Pur con tutte le doverose cautele, date le modalità del voto e la difficoltà di estrarre campioni significativi, siamo ragionevolmente fiduciosi di poter migliorare risultato già molto buono del 2015. La crescita dei consensi elettorali fa il paio con quella che stiamo registrando anche per le iscrizioni“.

UIL-scuola, per bocca di Barbagallo: “Risultati importanti che premiano impegno della nostra Organizzazione a tutti i livelli“.

Per loro va bene così, ma per i lavoratori?

 

Maggio: i “nuovi” quadri orario dei professionali: false riforme ed autentiche mistificazioni

Reduce da un Collegio docenti tormentato, in cui si doveva affrontare la questione dei nuovi quadri orario dei professionali (che è la conseguenza di uno dei decreti attuativi della “Buona scuola”) ho ripreso in mano il parere espresso il 18 gennaio 2018 sulla questione dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. E mi sono chiesta, per l’ennesima volta, perché, in questa nostra Repubblica, si mantengano in vita organismi importanti e complessi quando poi il parere espresso da tali organismi viene ignorato in maniera assai disinvolta. Dunque il CSPI, dopo aver riconosciuto l’importanza del rilancio dell’istruzione professionale – e nessuno di noi la nega – muoveva una serie di appunti allo schema di decreto in questione: intanto riteneva

“oggettivamente difficile realizzare in tempo utile le necessarie attività di formazione del personale connesse all’attuazione del riordino pur previste dal Decreto stesso (art.7), fondamentali per realizzare quel rilancio”.

Già questo basterebbe per pensare almeno ad un rinvio dell’applicazione del decreto; infatti, se il personale non è preparato, il fallimento didattico è certo. Ma c’è di più: il decreto attuativo prevede infatti una profonda (e discutibile) modifica della didattica, all’insegna di un maggior adeguamento alle esigenze lavorative esistenti nel territorio e di una “personalizzazione” del percorso di studi, il cui punto di approdo dovrebbe essere un “progetto formativo individuale”. Vediamo come si esprimeva a tal proposito il CSPI:

“… il cambiamento del paradigma didattico e l’introduzione di un progetto formativo individuale richiedono un forte investimento in:
1. organici (con criteri di assegnazione in deroga a quanto previsto dallo specifico decreto interministeriale per rispondere a quanto richiesto dalla nuova norma);
2. formazione e valorizzazione professionale del personale;
3. risorse e investimento in laboratori e strutture di contesto;
4. implementazione delle risorse (MOF)”.

Tutto molto sensato e molto chiaro e tutto completamente disatteso (o quasi) dal decreto. Fra gli argomenti più importanti che il CSPI metteva in campo, il lungo iter necessario per l’approvazione del decreto e “la difficoltà nei tempi previsti per l’attuazione del decreto, di consentire alle famiglie che intendono iscrivere i figli agli Istituti Professionali nel prossimo anno scolastico 2018/19, una scelta consapevole, tanto meno alle scuole interessate di effettuare un’adeguata attività di orientamento”. Peraltro, il 7 marzo scorso il CSPI ribadiva le osservazioni mosse a gennaio, esprimendo di nuovo forti perplessità sui tempi affrettati del decreto a fronte della “ampiezza, delicatezza e complessità tecnica dei contenuti che esso è chiamato a disciplinare”. Insomma, come minimo, il CSPI riteneva “opportuno un rinvio dell’attuazione del provvedimento.

Bene, nonostante queste ragionevoli riserve il 13 aprile 2018 viene approvato il Decreto Legislativo 61 per la revisione dei percorsi dell’istruzione professionale, che sta precipitando i Collegi docenti degli Istituti professionali nell’inferno di decisioni fallaci di modifica dei quadri orari e che li pone di fronte a domande indecidibili: “È meglio, in prima, un’ora di Fisica e un’ora di Chimica o due ore di Scienze Naturali e 0 ore di Fisica per gestire l’area di Scienze integrate?” E’ un genere di quesiti che può innescare discussioni senza fine tra docenti, volte a difendere l’esistenza in vita della propria disciplina più che una – peraltro inesistente – ratio didattica.

Si tratta di un bel pasticcio, considerato che la quota di variabilità del 20% non dovrà determinare situazioni di esubero “nel relativo ambito territoriale”; e se, per ipotesi, tutti i professionali di un certo ambito decidessero di decurtare le ore di una certa disciplina a favore di un’altra, creando così in ciascun istituto almeno un esubero in una data classe di concorso, come agirebbe l’USR? E non è nemmeno questa possibilità la cosa più scandalosa: ciò che davvero fa specie è che, dalla prima delle “riforme” della scuola italiana (Berlinguer, febbraio 2.000) si ripeta un identico copione, che sottolinea la necessità di personalizzazione dell’insegnamento, senza prevedere adeguate risorse e che chiede alla scuola di adeguarsi alle necessità lavorative del “territorio” come se una preparazione adeguata portasse con sé, miracolosamente, l’esistenza di nuovi posti di lavoro.

Invece la crisi occupazionale non ha nulla a che vedere con la formazione scolastica; non a caso le offerte di lavoro più numerose riguardano prestazioni a bassa o bassissima qualifica. “Un’indagine basata su dati Ocse ha rivelato che l’Italia è l’unico mercato europeo (insieme alla Grecia) dove la ripresa non ha favorito la crescita di professioni ad alto tasso di qualifiche; anzi, in proporzione la domanda di lavoro sembra orientata soprattutto verso il basso“. Ecco svelato l’arcano: la nostra scuola è funzionale a questa società. Riforma dopo riforma a scuola si apprende (e si insegna) sempre di meno; per giunta alla scuola è, in qualche modo, addebitata la responsabilità dell’alto tasso di disoccupazione.

Non è nemmeno un caso che a scuola si lavori sempre in modo emergenziale, sempre con i tempi strettissimi, sempre costretti a prendere decisioni con l’acqua alla gola. Decisioni prese con tempi più larghi – e quindi più meditate – porterebbero (spero) i docenti a comprendere quanto farraginose e capziose siano le cosiddette “riforme” e (forse) farebbero rinascere in molti uno spirito di resistenza, che finalmente respinga l’idea che il lavoro è il senso dell’essere a scuola. Potremmo, con tale coscienza, pretendere di tornare a fare il nostro lavoro, che è quello di trasmettere sapere, nei professionali come nei licei classici.

COM’È ANDATA A FINIRE?

Nelle scuole del “bello Italo Regno” i Collegi interessati hanno prima litigato e poi preso, più o meno a caso, una decisione. Facile profezia: nel prossimo anno scolastico nei professionali le cose non andranno meglio.

 

Giugno 1998, vent’anni prima

Nel 1998, a fine giugno, appariva lo Statuto delle studentesse e degli studenti: nero su bianco, le norme di comportamento ed i diritti delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria.

All’art. 3 (Doveri):
1. Gli studenti sono tenuti a frequentare regolarmente i corsi e ad assolvere assiduamente agli impegni di studio.
2. Gli studenti sono tenuti ad avere nei confronti del capo d’istituto, dei docenti, del personale tutto della scuola e dei loro compagni lo stesso rispetto, anche formale, che chiedono per se stessi.
3. Nell’esercizio dei loro diritti e nell’adempimento dei loro doveri gli studenti sono tenuti a mantenere un comportamento corretto e coerente con i principi di cui all’art.1.

Certo, se gli studenti a scuola si attenessero a queste semplici norme insegnare non sarebbe poi tanto difficile. Pure enunciazioni di principio che girano a vuoto e non incidono sulla realtà: il Ministero dell’Istruzione da anni ci rovescia addosso pagine e pagine di questa inutile prosa.

Sempre nel giugno del 1998, Beniamino Placido, con la solita penna arguta, celebrava l’ultima volta del TEMA di Maturità:

ALLELUIA! Evviva! Finalmente! Questa dovrebbe essere la volta buona. Vale a dire l’ultima volta che i nostri poveri maturandi vengono posti dinanzi a quella provocazione, a quella istigazione a delinquere che ha sempre rappresentato il famigerato tema d’italiano per la maturità. Delinquere: nel senso di esprimere pensieri politicamente, moralmente ed ideologicamente corretti intorno ad un tema di cui nella “traccia” è già anticipato lo svolgimento: virtuale, virtuoso. INVECE di invitarli a scrivere un riassunto: lì si vede chi sa scrivere, chi sa cogliere subito il nocciolo di una questione, di una dissertazione, e convertirlo in buona prosa, sapida e succinta. Invece di invitarli (è un’ alternativa) a dire quale fra due tesi contrapposte – di politica, di sociologia, di filosofia – è quella da loro preferita”.

Povero Beniamino Placido, poteva forse immaginare le dimensioni del faldone che costituisce, sino ad oggi, la traccia della prima prova scritta della Maturità? Poteva prevedere la cialtronaggine delle commissioni che elaborano le prove e che, nel tempo, hanno proposto svarioni di ogni tipo, celebre fra tutti quello del 2008 (era Gelmini) in cui l’analisi del testo di una ben nota poesia di Montale, dedicata ad un ballerino russo amico del poeta, così esordiva: “Nella prima strofa il poeta esprime, in una serie di immagini simboliche, da una parte la sua visione della realtà e dall’altra il ruolo salvifico e consolatorio svolto dalla figura femminile…”. Peccanto che la “figura femminile” cui il componimento è dedicato sia il danzatore russo Boris Kniaseff, amico del poeta.

Insomma, da parte degli estensori della traccia, una vera e propria istigazione a delinquere!

 

Giugno 2018, vent’anni dopo

Anche quest’anno è l’ultimo per la prova di Maturità che aveva esordito nel 1999, nel secondo ministero Berlinguer. Non si sa molto della prove che sostituiranno quelle attuali, ma immaginiamo che il gran parlare di “competenze” che s’è fatto in questi ultimi anni inciderà sulla natura dell’Esame. Di certo, a chiusura d’anno, possiamo affermare che due tra le più discusse iniziative, l’Alternanza scuola-lavoro e le prove Invalsi costituiranno l’una l’introibo all’esame l’altra una tappa in corso d’anno verso lo stesso. Con buona pace di tutti coloro, studenti ed insegnanti, che ne hanno denunciato le incongruenze ed i limiti.

L’Invalsi quest’anno ha prodotto un documento in cui, con il tono di rendere esplicito e chiaro a tutti il perché delle prove, conferma due cose importanti: a) il grado di preparazione degli studenti è sempre più correlato alla famiglia d’origine; b) undici anni di prove Invalsi non sono riuscite a modificare un bel niente. Citiamo dal suddetto documento:

In Italia nonostante i ragazzi passino tanto tempo in aula, la scuola non riesce ad attenuare le loro diseguaglianze di partenza. Quindici ragazzi su 100 abbandonano prima di aver conseguito il diploma di studio ma diventano 30 se calcoliamo la differenza tra iscritti al primo ciclo e diplomati alla maturità. La dispersione riguarda i figli dei genitori che hanno al massimo il diploma di terza media in misura quattro volte più alta rispetto ai figli di genitori laureati”.

Tutto questo, però, eravamo in grado di sospettarlo da soli, senza mantenere (malamente) in vita un Ente inutile.

Il ministro Berlinguer è ormai lontano; del nuovo ministro sappiamo ancora poco. Ha fatto il docente di Educazione fisica, il dirigente, il provveditore; sul suo curriculum dichiara una conoscenza appena sufficiente dell’inglese e del francese e questo, dopo una ministra che vantava una laurea inesistente, va a suo merito. La vaghezza del programma giallo-verde sulla scuola non permette, al momento di esprimersi. Certo è che la scuola ha bisogno di consistenti investimenti e che i lavoratori non possono essere ridotti alla miseria e messi, per giunta, al pubblico ludibrio. La scuola ha anche bisogno di uscire dal tunnel della burocratizzazione, ha bisogno di ritrovare la sua vocazione ad educare, ha bisogno di trovare il senso della sua esistenza non nel fantomatico “avviamento al lavoro (proprio nel momento in cui il lavoro, per molti giovani, è dimensione inesistente) ma nel recupero della dimensione educativa.

Molti idola tribus dovrebbero essere abbattuti per raggiungere questi obiettivi: dall’abbandono della fideistica fiducia nell’uso delle nuove tecnologie, al ridimensionamento dell’idea di “competenza troppo spesso inutilmente e scioccamente contrapposta alla conoscenza, soltanto per fare due esempi. Agli insegnanti bisognerebbe ridare dignità sociale: il mezzo più immediato sarebbe quello di retribuirli meglio e buttare alle ortiche il modello di “scuola on demand” che si è invece imposto da anni e che ha determinato la trasformazione degli studenti e delle famiglie in clienti tanto esigenti quanto, spesso, incompetenti. Bisognerebbe, soprattutto, ripristinare un canale di comunicazione tra chi impara e chi insegna: la vera cifra dell’anno scolastico appena concluso è stata, purtroppo, la violenza nelle aule.

 

Conclusione. Quando la scuola non è più un luogo di apprendimento e di educazione tende ad assomigliare ad un carcere

È giunto il momento di fermarsi, di fare silenzio, di riflettere sul rapporto tra chi insegna e chi impara (e non seguendo i consigli cretini dell’ultima moda pedagogica). Oggi questo rapporto non può essere inquadrato negli schemi che andavano bene all’inizio del Novecento. Bisogna lavorare precocemente – e questo significa che la scuola materna è importantissima. Bisogna lavorare in modo selettivo, lasciando perdere la bulimia educativa che fa sì che bambini piccolissimi se la debbano vedere con i problemi del mondo. Bisogna ridare centralità al linguaggio, perché è il linguaggio che ci rende umani. Bisogna pretendere di lavorare con piccoli gruppi di allievi, perché solo la circolarità della comunicazione può interpellare ognuno in prima persona; questo aspetto è molto diverso dall’“insegnamento individualizzato” da praticarsi in classi da 25-30 persone. Ma la cosa più importante è che gli insegnanti abbiano coscienza del proprio ruolo e non diventino stanchi esecutori di indicazioni ministeriali che si fanno, anno dopo anno, governo dopo governo, sempre più irrealistiche e confuse.

Dunque, non c’è nulla da fare, la scuola corre verso il declino, verso una lenta agonia? Non la penso così: molti insegnanti ciò che devono fare per salvare la scuola lo fanno ogni giorno. Ma troppi insegnanti tirano a campare, subiscono, mettono la polvere sotto il tappeto, rinunciano ad esprimere un punto di vista critico sul proprio lavoro perché, in fondo in fondo, pensano che quella critica li sminuisca. Invece solo chi lavora a scuola è in grado di cogliere i limiti del nostro sistema educativo ed è autorizzato a prospettare soluzioni, a cercare rimedi. Ma senza un cambiamento radicale delle condizioni di lavoro oggettive degli insegnanti (il primo intervento per ridare dignità, lo ripetiamo, è retribuire adeguatamente chi fa questo mestiere difficile) la scuola resterà quella che è: si vivrà alla meno peggio ed i più svantaggiati saranno, come sono, gli studenti più deboli, quelli che provengono da classi sociali disagiate.

Come mai nei tecnici e nei professionali esplode l’indisciplina e, a volte, la violenza? Non propriamente per le ragioni esposte in un suo criticato articolo da Michele Serra, ma perché è in quelle scuole che si concentra il disagio sociale, di famiglie allo sbando o in difficoltà. Quando la scuola non è più un luogo di apprendimento e di educazione dei giovani tende ad assomigliare ad un carcere. Sta a noi insegnanti spezzare il cerchio, non fare della scuola un recinto di contenimento delle giovani generazioni. Sta a noi opporci alla scuola della violenza, consapevoli che nulla è statico: o si risale la china o si precipita in basso. È il cinquantenario del Sessantotto: allora le aule si aprirono a ragazzi che dieci anni prima non avrebbero avuto modo di frequentarle. Oggi ci spetta un compito altrettanto arduo: far comprendere ai nostri studenti che quell’aula non è una prigione ma un luogo di libertà.

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Vivalascuola. Quando la scuola non è più un luogo di educazione ultima modifica: 2018-06-11T15:34:13+02:00 da
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