A colpi di riforme abbiamo svilito il sistema scolastico

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di Alfonso Berardinelli, Avvenire,  15.11.2018

– La non facile convivenza fra umanesimo, democrazia e capitalismo mi sembra che si stia manifestando con chiarezza esemplare nella scuola e nei suoi problemi. Non appena ci si chiede che cosa deve fare la scuola, cosa deve insegnare, che tipo di esseri umani dovrebbe formare, ecco che il conflitto si manifesta.

Da un lato ci sono l’apprendimento tecnico e i saperi funzionali al sistema economico così com’è, un sistema che sta distruggendo ambiente e lavoro, esperienze reali e coscienza critica. Dall’altro dovrebbe esserci un’educazione che incrementi sia i legami sociali comunicativi, morali e pratici, sia la libertà e l’autocoscienza degli individui.

Una società sana (se mai ce ne sarà una) rispetta e sviluppa l’autonomia individuale, che a sua volta è la sola garanzia alla formazione di comunità cooperative e necessarie, ma non alienate né eterodirette.

Penso che il crollo di credibilità del governo Renzi e della sinistra italiana sia dovuto proprio alle sue riforme della scuola e del lavoro, irresponsabilmente o furbescamente affrettate, vuote di analisi e di prospettive. Il volume Aprire le porte. Per una scuola democratica e cooperativa (Castelvecchi, pagine 188, euro 17,50) curato e introdotto da Piero Bevilacqua, raccoglie quattordici saggi di insegnanti, docenti universitari e studiosi. Proprio perché si presentano come razionalità o la fingono, le innovazioni modernizzanti sia nella società che nella scuola, vanno messe in discussione.

Lo chiarisce l’epigrafe di Edgar Morin all’inizio del libro: «Un razionalismo che ignora gli esseri, la soggettività, l’affettività, la vita, è irrazionale. La razionalità deve riconoscere l’importanza dell’affetto, dell’amore, del pentimento. Vera razionalità è quella che conosce i limiti della logica, del determinismo, del meccanicismo e sa che la mente umana non potrebbe essere onnisciente, che la realtà comporta mistero».

Ora che il sistema scolastico italiano è sempre più strozzato, impoverito, immiserito sotto i colpi di riforme puntigliosamente e ciecamente normativiste cioè burocratiche, si arriva a capire che nonostante i suoi difetti la nostra scuola, dal 1945 in poi, era fondata su valori solidi, anzitutto la serietà e intensità dello studio.

Scrive Bevilacqua: «Quella che a tanti analfabeti informatizzati appare oggi come una forma di arretratezza era un edificio formativo decisamente esemplare». Non riesco a credere in quella esemplarità. Eppure quella scuola era qualcosa con cui misurarsi e magari scontrarsi: oggi la scuola si avvia a essere un quasi nulla. A forza di innovazioni fine a se stesse si sta attuando il suo suicidio.
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La scuola e il ruolo di chi la incarna

nel cuore della sfida che ci sta davanti

di Marco Tarquinio, Avvenire,  16.11.2018

 

Gentile direttore,
raramente mi sono imbattuto in un articolo di analisi della scuola italiana netto e sincero come quello che Alfonso Berardinelli ha firmato su “Avvenire” del 16 novembre nella sua rubrica “Minima”. Fossi in lei, lo regalerei al ministro dell’Istruzione e alla pletora di burocrati e anche docenti à la page che stanno affossando la nostra povera scuola.
Riccardo Prando, Varese

Caro direttore,
ho letto con piacere l’articolo di Ferdinando Camon sul tema di quei docenti che fanno il loro dovere senza mai assentarsi dalla scuola. Mi ritrovo in pieno nelle considerazioni del grande scrittore sul “silenzio” delle autorità preposte a evidenziare – almeno come esempio per tutti – i comportamenti di cittadini che si distinguono per correttezza e serietà.
Anch’io per oltre 42 anni di insegnamento (e “collocato in pensione” – brutto termine – di ufficio) in un Istituto tecnico per geometri di Benevento (quindi scuola media superiore e non solo inferiore come quella a cui si riferiva Camon nell’articolo citato) non ho mai fatto assenza, pur se qualche volta non ero in “perfette condizioni”, ma con un po’ di buona volontà si poteva superare tutto, per un senso di rispetto per gli alunni… Non ci sono state “medaglie” o altri riconoscimenti, ma rimane la testimonianza degli alunni che, pur avendo raggiunto posizioni professionali di un certo prestigio, a distanza di anni ti “riconoscono” e desiderano parlarti con emozione per essere stato con loro non solo il docente di una qualche materia, ma un educatore. E questo che non potrà mai essere considerato solo una “professione” e non può essere mai messo “in pensione”.
Così cresce l’Italia, nell’apparente silenzio e con un impegno quotidiano che va oltre ogni ufficialità. La verità – cristianamente parlando – va avanti per forza propria…
Ubaldo Cuccillato, Benevento

Regalare le considerazioni di Alfonso Berardinelli a Marco Bussetti, uomo di scuola e oggi ministro dell’Istruzione? Già fatto, gentile professor Prando. Gliele abbiamo recapitate dopo quelle contenute nell’editoriale di Ferdinando Camon che, sabato 10 novembre, ho scelto di titolare «Ecco chi fa l’Italia». E assieme a tutti gli articoli che, via via, dedichiamo al tema scolastico e, più in generale, educativo… un dono per Bussetti e per tutti coloro che siedono in Parlamento, nelle assemblee locali, sui banchi delle amministrazioni centrali e periferiche. Mi è stato infatti insegnato, quando ero un ancor giovane giornalista, che ogni articolo pubblicato è un “regalo” (magari scomodo) per chi ha responsabilità sulle questioni di cui un giornale dà conto se chi scrive e mette in pagina s’impegna a farlo in modo corretto e completo sul piano della cronaca e limpido e onesto sul piano del commento. Certo, non tutti sono disposti ad accettare di buon grado simili “regali”, ma ho motivo di credere che il ministro Bussetti per storia e per intenzione sia anche un… ascoltatore coraggioso delle voci, diciamo così, “dal basso” che tentano di arrivare sino ai palazzi della politica e della pubblica amministrazione.

L’ultimo intervento di Alfonso Berardinelli nella densa rubrica “Minima” (che tiene ormai sin dalla fine del luglio 2007) è ben riassunto nel titolo: «A colpi di riforme abbiamo svilito il sistema scolastico», e secondo l’ottima consuetudine dell’Autore va dritto al punto: la «non facile convivenza fra umanesimo, democrazia e capitalismo». Ragiona Berardinelli: «Da un lato ci sono l’apprendimento tecnico e i saperi funzionali al sistema economico così com’è, un sistema che sta distruggendo ambiente e lavoro, esperienze reali e coscienza critica. Dall’altro dovrebbe esserci un’educazione che incrementi sia i legami sociali comunicativi, morali e pratici, sia la libertà e l’autocoscienza degli individui. Una società sana (se mai ce ne sarà una) rispetta e sviluppa l’autonomia individuale, che a sua volta è la sola garanzia alla formazione di comunità cooperative e necessarie, ma non alienate né eterodirette». I lettori “Avvenire” sanno bene che, da anni, su queste pagine redattori e collaboratori sono impegnati a documentare, ragionare e proporre su questa linea di faglia che attraversa la nostra modernità (il «cambiamento d’epoca», di cui papa Francesco ci chiede di essere consapevoli) e per rendere chiare le vie per dare concretezza all’umanesimo di cui siamo eredi e dobbiamo saper essere continuatori, per salvare l’anima della democrazia, per rifare del mercato una parte della vita e non il senso stesso dell’esistenza…

È un’ambizione necessaria e ardua. Ancora più ardua senza una scuola all’altezza. Per questo condivido la lettura di fondo e l’appello che caratterizzano la libera opinione di Berardinelli sul futuro del sistema d’istruzione italiano. La conclusione di quell’articolo è, però, dominata da un pessimismo che non mi appartiene e al quale non intendo consegnarmi. E prima di tutto per la stima che ho della dedizione individuale e del gran lavoro comune di un gran numero di dirigenti scolastici e di insegnanti (è stato il mestiere, e la missione, di mio padre e mia madre e ne so più di qualcosa anche per esperienza personale). Persone a cui dà direttamente voce la bella lettera-testimonianza del professor Cuccillato e su cui si era concentrato anche Camon. «La loro gioia sta nella paternità e nella maternità “educativa”. (…) Vanno a scuola – ha scritto lo scrittore padovano – perché non possono fare a meno dei ragazzi e i ragazzi non possono fare a meno di loro. È un sacrificio, ma sono stati formati sull’idea che il sacrificio dà un senso alla vita». Fanno parte, annota ancora il nostro editorialista, di un esercito di uomini e donne che ogni giorno lavora senz’armi e con vera passione «amando il loro ruolo di benefattori ignorati». Ecco: le persone sono il cuore stesso delle grandi questioni che abbiamo davanti, e le persone sono e restano la risposta ai problemi. Servono, perciò, rispetto e riconoscimento per i buoni maestri di Camon e servono le sferzate, meditate e utili, che Berardinelli indirizza (soprattutto, ma non solo) alla politica. Spero che gli uni e le altre lascino il segno.

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