Ossessione per i test, per l’innovazione, per le misure di qualità di agenzie esterne e “progetti”: la lunga lista delle cose di cui disfarsi
In campagna elettorale le forze politiche dovrebbero chiarire i loro progetti sui temi concreti: la scuola dovrebbe essere uno dei più importanti. Promosso da un gruppo di docenti del Lombardo-Veneto, e sottoscritto da centinaia di insegnanti, circola in Rete un “Appello per la Scuola Pubblica” che identifica sette temi su cui propone un ripensamento delle politiche degli ultimi governi: rivaluta il concetto di “conoscenza” contro quello di “competenza”, totem di derivazione aziendalistica al quale sacrificare e orientare qualunque processo formativo; dubita che le tecnologie digitali possano avere di per sé un effetto positivo sulla nuova didattica; rivaluta la lezione tradizionale contro il magmatico concetto di “attività laboratoriale”; deplora le forme in cui si è fatto entrare il mondo del lavoro nella scuola, non cioè come conoscenza critica delle professioni ma come precoce sfruttamento (la famigerata “alternanza scuola-lavoro”); propone una moratoria sui sistemi di valutazione demandati ad agenzie terze (i test Invalsi e i test Ocse-Pisa), e sulla metodologia Clil per l’apprendimento in lingua straniera, rivelatasi troppe volte una farsa (costosa per i docenti); caldeggia infine un’azione più incisiva per creare una scuola inclusiva che affronti il tema della dispersione.
L’appello propone una formazione che prescinda dalle categorie strombazzate dai pedagogisti à la page e metta al centro dell’insegnamento i contenuti disciplinari e il quantitativo di entusiasmo e di sapere critico che essi scatenano nell’allievo, senza favorire la deriva del teaching to the testvolto a dotare gli allievi di indifferenziati “livelli di competenza” misurabili quantitativamente. Questo per evitare che la valutazione diventi un fine in se stesso, capace – come mostrano le indagini sugli studenti finlandesi, un tempo presi a modello e ora sempre meno preparati e meno interessati – di mortificare la sete di conoscenza dei giovani in nome di un sistema standardizzato. Il fisico Svein Sjoberg ha mostrato come il test Pisa sia uno strumento politico basato su criteri e procedimenti fallaci; molti studiosi hanno poi indicato le falle del “modello statistico di Rasch” su cui si fondano i test Invalsi. La retorica del Total Quality Management, i modelli per la certificazione di qualità (Iso, Efqm ecc.), e le scartoffie di autovalutazione obbligata, portano la scuola sempre più lontano dalla sua missione originaria di trasmettere conoscenze e spirito critico, e sempre più vicino a un gorgo burocratico. Che poi gli stessi meccanismi siano attivi anche nell’istruzione universitaria rende il panorama ancor più sconfortante.
Sono l’Europa e l’Ocse a suonare la grancassa, e i nostri governi giù a emanare bandi per l’”educazione all’imprenditorialità” e la “creatività digitale”, a raccomandare il project-based learning, il “teatro d’impresa”, il digital storytelling, il learning by doing, il net working e altre parole d’ordine a cui le scuole sono tenute ad adeguare la propria attività se vogliono ottenere qualche finanziamento, non di rado indispensabile anche solo per il mero funzionamento ordinario.
Il recente rapporto della Deloitte per il ministero dell’Istruzione raccomanda “meno enfasi alla formazione disciplinare” e “un cambiamento delle sinapsi cerebrali” degli insegnanti, definiti ” professionisti della scuola di vecchia data” : come nota Rossella Latempa su roars.it, si tratta di un cambio di paradigma spacciato per l’ultimo grido della pedagogia ma corrispondente a un disegno che mette al centro la “qualificazione” del discente in funzione delle realtà produttive, l’”innovazione” a tutti i costi anche quando sotto non c’è niente di nuovo, e la “formazione continua” come fonte perenne di un senso di inadeguatezza che priva il futuro lavoratore di ogni sguardo critico sul mercato che lo emargina.
Il filosofo austriaco Konrad Paul Liessmann, nel suo libro Cultura come provocazione (Bildung als Provokation, Zsolnay 2017), critica il “processo di Bologna”, tutto volto a misurare con metodi quantitativi l’efficienza dei sistemi di istruzione e ricerca, e proteso verso un modello ferocemente competitivo che fa a pugni con l’idea di una scuola che “non lascia indietro nessuno”. Liessmann osserva che si sono forniti alla generazione Erasmus dei paradigmi di vita e di pensiero orientati alla cultura mercatista neoliberale, insieme a una serie di “crediti formativi” unificati (“crediti” e “debiti” sono pane quotidiano dalla scuola secondaria alla laurea); ma si è dimenticato di dare ai giovani europei una base culturale comune, che consentisse a tutti di conoscere almeno Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Cervantes, Goethe, Flaubert, e così per la musica, l’architettura, l’arte politica, la scienza.
Chi giudica queste posizioni come conservatrici o elitiste, farebbe bene a riflettere se non siano in verità rivoluzionarie, mentre il pensiero unico va a tutta velocità nella direzione opposta, esponendoci al serio rischio di future generazioni imbottite di pseudo-competenze certificate (e nel frattempo invecchiate) ma prive di quello sguardo “largo” che dà gli strumenti per interpretare il mondo e per crescere come individui. L’insegnante viene visto sempre più come un impiegato che non necessariamente ha mai messo le “mani in pasta” nella ricerca attiva, ma ha imparato le sullodate formule e i sullodati metodi (auto)valutativi, si comprende come il rischio di un decadimento dell’istruzione sia molto elevato. Sarebbe utile sapere, in tempo di campagna elettorale, quale forza politica sia pronta a condividere almeno alcune di queste riserve, e dare nuova linfa e nuova motivazione al disegno culturale della scuola pubblica.