Il Corriere della sera, 20.7.2022.
Alcune considerazioni sulla riforma della formazione dei prof approvata nell’estate 2022: valutazione, competenze e concorsi, che cosa serve veramente alla scuola e agli studenti
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento
Se, citando Socrate, «l’unica vera saggezza è sapere di non sapere nulla», intraprendere l’attività di insegnamento implica una buona dose o di autostima o un perenne senso di inferiorità rispetto ad un’azione che si contraddice a priori. Al di là delle disquisizioni filosofiche, pare innegabile che la valorizzazione della professione docente abbia ancora tanta strada da percorrere per ricevere adeguato riconoscimento sociale. Pur nel contesto sfavorevole, è un dato di fatto che, ad abbracciare la professione con umiltà e passione, qualcosa si impari e, nel corso del tempo, si possa usare l’esperienza come strumento per una didattica efficace e mirata. Eppure, la carriera dell’insegnante non trova valorizzazione e non riceve il benché minimo riconoscimento economico.
Ma analizziamo la questione usando la timeline e la lente di ingrandimento per l’ultimo periodo, prendendo in esame i piani didattici. Visti a distanza, gli ultimi cento anni di scuola appaiono un secolo lungo, rispetto al secolo breve degli accadimenti storici. Al contrario, gli ultimi tre anni si configurano come il triennio breve, se considerato da un punto di vista della rivoluzione operata nella didattica. È sotto gli occhi di tutti come le metodologie di insegnamento si siano rivoluzionate (certo, forzatamente spinte dalla pandemia) in un modo che non ha avuto eguali da un centinaio di anni a questa parte. Le «riformine» degli ultimi decenni, che hanno tentato di dare alla scuola una patina di modernità, non sono nulla se paragonate ai cambiamenti degli ultimi tre anni.
Gli esperimenti
In realtà, prima del progetto Brocca (1988-1992) e poi della Riforma Gelmini (2009- 2010), alcune scuole avevano attuato sperimentazioni, di grande portata, ad esempio introducendo l’insegnamento della filosofia negli indirizzi tecnici, oppure incrementando le discipline scientifiche e linguistiche negli indirizzi umanistici e favorendo lo sviluppo delle competenze informatiche; tutto poi spazzato via da una Riforma che ha omologato il curriculum delle superiori a seconda dell’indirizzo.
Invece di trarre spunto da esperienze virtuose e lasciare vera autonomia alle scuole (non solo sulla carta, ma fattivamente) si è scelta la via della centralizzazione e uniformità. Così nei dieci anni successivi le scuole hanno, per così dire, normalizzato il curriculum, ritagliandosi a fatica spazi di autonomia. Poi dalla primavera del 2020 tutto è cambiato e molto in fretta. Fortunati quelli che erano pronti perché alcune scuole avevano già fatto tesoro delle piattaforme digitali e le avevano applicate ben prima della DAD.
La scuola poco «affettuosa»
Un po’ meno chi ha dovuto partire da zero. In ogni caso, per la prima volta, molti genitori hanno preso atto del lavoro dei docenti, perché, volenti o nolenti, si sono trovati virtualmente in classe con i figli. Forse si è presa contezza che l’insegnante è un professionista, che non si limita a ripetere e trasmettere passivamente nozioni.
Qualcuno riesce ad immaginare la fatica fatta nel tenere vivi i legami con ragazzi che, spesso, si nascondevano dietro il buio di una telecamera spenta? Quanto impegno e quanto entusiasmo nel mettere al centro delle giornate un sapere che fosse di arricchimento intellettuale e spirituale. Eppure, anche i docenti erano stanchi e spaventati, come tutti, e come tutti avevano situazioni familiari complesse da organizzare.
Ma di quale premialità o riconoscenza hanno beneficiato? Nei nostri confronti la scuola non si è mostrata così «affettuosa». Guardando alla professione insegnante, prendiamo in esame una tra le attività più complesse, che, per forza di cose, si sono allineate con i cambiamenti in atto: la valutazione. L’insegnante non può rinunciare a un atto che, soprattutto negli ultimi tempi, è diventato particolarmente delicato. Come un medico effettua diagnosi, fauste o infauste che siano, e la trasparenza gli impone onestà ma anche preparazione psicologica per comunicare con pazienti e famiglie, così l’insegnante non può esimersi da una valutazione onesta e, quanto più possibile, oggettiva, come ultimo atto che implica una preparazione specifica nella disciplina insegnata, ma anche competenze in materia di psicologia dell’adolescenza. Ma, mentre difficilmente si nega al medico la sua professionalità in merito alla diagnostica, molti si ritengono in grado di opporre la propria competenza valutativa pretendendo di sostituirsi all’insegnante perché titolati a farlo.
Sfidiamo a trovare insegnanti che nel corso della loro carriera (e ultimamente in modo più marcato) non abbiano discusso con genitori sgomenti (e talvolta aggressivi) a causa di valutazioni che non condividevano. Pochi si ergono a medici, honoris causa, moltissimi si fregiano del titolo di insegnanti: basta aver frequentato una scuola per poterlo fare!
Questo spiega in parte perché, ancora una volta, ci troviamo in fondo alle classifiche europee per RAL, come se, oltre alla preparazione culturale data per presupposta, l’ulteriore salto fatto nella ricerca di metodologie didattiche alternative non contasse nulla. Possibile che non si possano individuare sistemi di valutazione del lavoro reale dell’insegnante? Correlata a questo discorso è la modalità di reclutamento degli insegnanti. Si tratta di un aspetto cruciale perché concorre potentemente a definire il futuro della scuola e rivela la lungimiranza dei decisori politici.
Selezionare i docenti
Negli ultimi anni, le rilevazioni Ocse-Pisa, Invalsi e le ricerche di Fondazione Agnelli hanno certificato quanto sia indispensabile puntare sulla qualità del corpo docenti. Ma per realizzare ciò occorre che si sappia selezionare, formare e incentivare gli insegnanti. Veniamo al primo punto (reclutamento dei docenti). Solo se le prove sono serie si può avere la certezza di scegliere i migliori.
Il D.L. 36 dimostra la volontà del legislatore di pianificare con razionalità la questione dei concorsi, abbandonando la strada delle sanatorie cui, spesso, si è ricorso per risolvere situazioni critiche. Il percorso per diventare insegnante appare tracciato con una certa chiarezza: laurea magistrale, un anno di corso di specializzazione, tirocini, esame di abilitazione, concorso.
L’aver distinto il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento dal concorso e dalla successiva assunzione, l’aver puntato sulla preparazione didattica per chi decide di diventare insegnante sono scelte che favoriscono una formazione di base di qualità.
Ma ci permettiamo di sostenere che andrebbe potenziato il tirocinio nelle scuole, come strumento utile per vedere calati nella concretezza della pratica quotidiana ciò che si è appreso. Si capirebbe, ad esempio, cosa vuol dire costruire/calibrare una «unità didattica» a partire dal profilo e dalle esigenze di classi sempre lontane dai modelli astratti. Qualche dubbio sulla natura delle prove dei concorsi nasce dalle recenti esperienze. Dopo anni di attesa, il percorso per diventare docenti di ruolo è stato bandito in piena pandemia, ed espletato ben due anni dopo (per la scuola secondaria, nella primavera del 2022).
La modalità con cui questo concorso sarebbe stato poi realizzato è cambiata: da tre prove, di cui una preselettiva, si è passati a due (uno scritto a domande aperte e un orale) per arrivare, infine, ad una prova scritta a crocette e una prova orale. Va da sé che anche la preparazione si è dovuta adeguare ai cambiamenti: via i testi della preselettiva e via i collegamenti sul programma di studio per le domande aperte. Il tutto si è ridotto ad una certosina analisi di opere minori, incipit di testi, date. Perché, d’altra parte, è questo che è stato chiesto per il concorso di Lettere: riconoscere un’opera da una citazione (quando va bene, del suo incipit! Addirittura, in un quesito, la richiesta è stata di riconoscere l’opera dalla prefazione).
Come si può concepire la valutazione di chi desidera intraprendere la carriera di insegnante tramite quiz che svuotano di ogni profondità il sapere e impongono regole folli, quali l’impossibilità di fare due conti su un pezzetto di carta, perché non consentito dalla normativa?
E’ possibile che la caterva di ricorsi fatta registrare nei precedenti concorsi abbia imposto un ripensamento sulle prove, ma a che servono quiz puramente nozionistici, a volte erronei o ambigui, (come certificato dall’Accademia della Crusca) spesso poco pertinenti con quello che si insegna e con percentuali di promossi molto bassa?
Che dire poi, della scelta di somministrare la stessa prova nei diversi turni di una medesima classe di concorso?
Qualsiasi docente avveduto prepara prove diverse per gli alunni assenti ad una verifica. Per rimediare al basso numero di abilitati, ecco pronto un concorso straordinario bis: quota di iscrizione 128 euro; orale con traccia estratta al momento (non si sa se sui contenuti della disciplina o lezione simulata). Poi, se si supera questa fase è richiesto un percorso abilitante di un anno a spese del singolo docente che, se superato, consente l’assunzione.
Vincere al lotto
Insomma, finché diventare insegnanti sarà quasi paragonabile ad una vincita al lotto e non a una scelta professionale abbracciata con convinzione, la formazione di intere generazioni dipenderà più dalla fortuna che dalla preparazione dell’intera classe docente.
Per quanto riguarda il secondo e il terzo punto (formazione e aggiornamento) è positivo che, sempre nel D.L. 36, si affermi che tutti i docenti devono aggiornarsi, ma non si capisce perché solo il 40% di coloro che per un triennio seguiranno tali corsi otterranno un riconoscimento salariale una tantum. Su quali basi verranno individuati i meritevoli non è dato sapere con precisione. Va da sé che una tale scelta non può che apparire discriminatoria, socialmente offensiva nei confronti di questa categoria di lavoratori.
Si poteva pensare di legare l’aggiornamento ad avanzamenti di carriera e assunzione di incarichi all’interno della scuola eliminando quella regola che lega gli aumenti di stipendio (peraltro irrisori) esclusivamente agli scatti di anzianità.
Oppure continuiamo nell’ altro stereotipo dell’insegnante con tre mesi di ferie e 18 ore di lavoro settimanali? Per inciso, noi abbiamo concluso i lavori della maturità l’8 luglio e l’ultima settimana di agosto saremo a scuola per le prove del debito. Crediamo veramente che la scuola sia la migliore scommessa per un futuro vincente del Paese o si tratta solo di retorica?
Chi prepara i corsi?
Ancora, è auspicabile che l’aggiornamento non venga deciso mediante un sistema centralizzato: meglio evitare la pletora di corsi, progetti preparati da chi poco conosce la realtà della scuola superiore e di cui tutti hanno avuto esperienza.
Non è unicamente di contenuti che l’insegnante ha bisogno: la gran parte provvede già da sé a seguire le nuove tendenze critiche e le novità nell’ambito delle loro discipline. Sono le singole scuole, con i dipartimenti di materia, a conoscere i propri bisogni e, a partire da ciò, spetterebbe a loro individuare corsi d’aggiornamento ad hoc e progetti di autoformazione, a piccoli gruppi, di carattere specialistico.
Per concludere, un’altra breve nota polemica: i ragazzi hanno dato prova di tenuta nelle difficoltà; e di questo noi insegnanti siamo orgogliosi. Credo che si concordi che i docenti non si sono sottratti al loro dovere che è andato ben oltre l’ora di lezione.
È troppo chiedere a chi di dovere di rendere la scuola oltre che «affettuosa» (a questo ci hanno largamente pensato tutti gli attori della scuola), anche strutturalmente adeguata a insegnanti e giovani menti che hanno bisogno di spazi confortevoli, aule dalle volumetrie adeguate, sistemi di sanificazione dell’aria, connessioni veloci e strumentazioni moderne? Interessante, a questo proposito, il contributo scientifico commissionato e presentato da Fondazione Agnelli, WP61 Biondi, Tosi Mosa Edilizia scolastica e spazi di apprendimento.
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