di Silvia Ballabio
12.10.2019– Il Cdm ha approvato in data 10 ottobre il decreto “salva precari”. Esso contiene tuttavia una macroscopica contraddizione. Oppure è una scelta?
Il Consiglio dei ministri ha approvato in data 10 ottobre il decreto “salva precari”, che prevede un concorso straordinario per 24mila assunzioni di docenti della scuola secondaria di primo e secondo grado. Possono accedere i docenti che hanno un servizio nelle sole scuole statali di almeno tre anni tra l’anno scolastico 2011/2012 e l’anno scolastico 2018/2019, di cui almeno uno per la classe di concorso per la quale si concorre.
Il concorso, che praticamente ricalca quanto discusso nell’incontro fra Miur e sindacati della scuola tenutosi a inizio ottobre, prevede una prova a computer a risposte chiuse, la valutazione dei titoli e poi la stesura di una graduatoria. Chi non rientrerà nei primi 24mila sarà abilitato attraverso la procedura concorsuale, un bel caso di 2×1, purché sia in servizio presso una scuola statale, abbia conseguito o consegua i 24 Cfu e prenda almeno 7/10 nella prova scritta.
Particolarmente interessante il comma 6, che recita: “Al fine di contrastare il fenomeno del ricorso ai contratti a tempo determinato nelle istituzioni scolastiche statali e per favorire l’immissione in ruolo dei relativi precari, il servizio di cui al comma 5, lettera a), è preso in considerazione unicamente se prestato nelle scuole secondarie statali”. La logica sembrerebbe inoppugnabile; la scuola statale ha bisogno di stabilizzare i “suoi” docenti, i “suoi” precari, per cui non si prende in carico i docenti della scuola paritaria.
Accettiamo in via ipotetica tale premessa, o condizione capestro, come corretta; analogamente, i docenti assunti presso la scuola paritaria a tempo indeterminato o determinato dovrebbero poter usufruire di analoghe condizioni all’interno del ramo della istruzione in cui sono collocati e quindi dovrebbero poter sostenere una prova, analoga a quella dei loro colleghi della scuola statale, che dia loro almeno il sottoprodotto della procedura concorsuale, vale a dire l’abilitazione, ovviamente alle stesse condizioni del collega precario statale. La scuola paritaria ha l’obbligo di erogare un servizio pubblico di cui risponde – pena la perdita della parità – allo Stato italiano, e una delle condizioni essenziali di quest’obbligo è l’utilizzo di docenti abilitati.
Ora, se l’ipotesi di tale concorso contravviene al principio giuridico che solo lo Stato abilita gli insegnanti, sia lo Stato a permettere ai docenti della paritaria di partecipare al concorso ai soli fini dell’abilitazione. Allo Stato non costerebbe nulla, anzi, si garantirebbe l’entrata delle quote di segreteria, e visto che il ministro Fioramonti è il fautore delle piccole entrate che sostengono la scuola, ma che non ha avuto né le merendine né le tasse sui biglietti aerei (a dire il vero nemmeno i tre miliardi che avrebbero scongiurato le sue immediate dimissioni), non dovrebbe disprezzare questo piccolo contributo pecuniario, quasi spontaneo, da parte dei docenti paritari desiderosi di abilitazione.
Rifiutiamo ora, e questa volta non in via ipotetica, la premessa dell’esclusione dei docenti delle scuole paritarie (che avessero tre anni di servizio misto o esclusivamente nella paritaria e che quindi sarebbero tagliati fuori dal concorso-crea-ruoli e abilita-tutti); rimane l’ostacolo della motivazione addotta nel comma 6, vale a dire la necessità della scuola statale di sistemare i suoi precari. Ma se le cose stanno così, di grazia, è possibile capire perché questo concorso sarà aperto anche ai docenti già in ruolo nello Stato, che precari non sono?
Egregio Ministro, attendiamo una Sua risposta. Via Twitter, se preferisce.
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