Ho aspettato, perché volevo capire bene. Non è stata facile da comprendere l’ultima settimana, con le circolari che rincorrevano i decreti, le notizie dai titoli fuorvianti, le diverse realtà territoriali. Non si viene più, no, solo i licei, no tutte le superiori, si entra un’ora dopo, no, bisogna fare più pomeriggi, no basta il 50%, poi forse però si torna alla didattica a distanza totale, no deve essere almeno al 75%. I colleghi che si occupano dell’orario fanno un misto tra i contorsionisti bulgari e il doppio slalom, finiranno l’anno scolastico all’alcolisti anonimi.

Ho aspettato a dire come mi sento, perché importa davvero poco rispetto a come si sente chi il suo lavoro non lo sta solo vedendo cambiare, ma lo sta vedendo morire.

Ho aspettato perché volevo rendermi conto sul serio di cosa significhi entrare in una scuola vuota e fare finta che sia piena. L’effetto di quando sono tutti in gita scolastica e tu sei rimasta a spiegare a quelle classi che non ci sono andate, ed entri al mattino e senti che qualcosa non va, e ci metti un po’ a risintonizzarti su quella frequenza di silenzio inusuale.

Ho aspettato anche perché davanti agli ospedali strapieni si può solo abbassare la testa, fare tutto il possibile e sperare che la situazione migliori, ché di sicuro si sarebbero potute fare tante cose, in primis intervenire sui trasporti, per tacere di tante soluzioni dispensate a piene mani dai tuttologi del web, ma adesso ormai è tardi. E’ tardi e ci siamo di nuovo dentro, che lo sapessimo, che ce lo aspettassimo o meno.