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I prof fanno troppe vacanze? Cambiateci il contratto

Come ogni anno si rianima l’estenuante discussione sulle “vacanze” degli insegnanti. Che nasconde un gigantesco problema organizzativo e professionale.
di Daniele Ferrari – 4 luglio 2017

Come ogni anno, a fine giugno-inizio luglio, si rianima l’estenuante discussione sulle “vacanze” degli insegnanti. Troppe per i più, giustificate per i diretti interessati. Un recente articolo di Enrico Galiano, prof molto seguito sui social e romanziere (il suo ultimo romanzo è Eppure cadiamo felici) riassume, posizionandosi sulla difensiva, le ragioni per cui in realtà un insegnante “merita” i due mesi di “vacanza” estiva: in Italia i prof passano in classe un numero di giorni congruo (anzi superiore) rispetto alla media europea, ma sono tra i peggio pagati; inoltre “calcolare la mole di lavoro di un insegnante solo sulla base di quante sono le ore passate in classe è come pretendere di calcolare quanto tempo Usain Bolt passa a correre, tenendo conto solo di una sua gara sui cento metri piani”. A questo punto, Galiano elenca i motivi per cui, a suo giudizio, l’intensità del lavoro cui è sottoposto un insegnante sia tale da renderlo non paragonabile a molti altri: lo testimonierebbe il fatto che quella dell’insegnante è la categoria più soggetta al pericolo di burnout.

Tutto vero, ma tutto pateticamente insufficiente. Da un lato infatti è inutile negare che percepire uno stipendio senza lavorare e senza usufruire di ferie è una grave ingiustizia: infatti, conti alla mano, un insegnante non ha più “ferie” di altri lavoratori del servizio pubblico; ma ha molte “vacanze”, ossia periodi in cui, essendo la scuola chiusa o gli studenti in vacanza, sarebbe a disposizione, ma non ha attività da svolgere relativamente alla sua mansione. Periodi nei quali può studiare, aggiornarsi ecc., oppure non fare nulla (già, nulla!). Questo credo sia il problema più grave, e articoli come quello citato non fanno altro che eluderlo. Dall’altro però ogni mestiere ha la sua peculiarità e se l’insegnamento fosse, come mi ha sempre ripetuto il mio maestro, una libera professione, ogni insegnante sarebbe pagato non solo in ragione del numero di ore che svolge in aula, ma soprattutto per la qualità del suo lavoro, per i risultati che ottiene con gli studenti, per ciò che studia, scrive, progetta, realizza.

Ma nel sistema pubblico (e privato), siamo ancora lontani da questo che potrebbe essere un traguardo: e il mondo del lavoro spesso guarda all’insegnamento come la scelta che fa chi vuole avere un lavoro a “posto fisso” per mezza giornata. È forse per questo tipo di sguardo sminuente che tante volte i molti docenti che lavorano (e tanto) si sentono quasi in difetto, costretti a giustificare il loro impegno. Ma poi, questi stessi insegnanti, per spiegarsi, scendono sul terreno di chi li accusa e si mettono a “monetizzare” il loro impegno, inventando assurde tabelle orarie per cercare di fare quadrare i conti e trasformare quello dell’insegnante in un lavoro come altri.

Chi, tra chi legge, ha dei figli a scuola sa, forse in modo più immediato di altri, quanto trovare un bravo insegnate cambi la vita dei propri figli. Parlo per esperienza: per come ha lavorato la maestra di prima elementare di mio figlio, per le cose che gli ha fatto imparare (che scoperta, tra tutte, quella di imparare a leggere, quasi “magica”!), per la passione e la serietà con cui ha progettato le attività, per l’attenzione ai diversi temperamenti degli studenti della sua classe, per il bene che gli ha voluto, per il desiderio che ha valorizzato in mio figlio di andare a scuola e studiare, per queste e altre ragioni, sono ben contento che si faccia due mesi di riposanti ferie. Il suo compito l’ha fatto e bene, cosa chiederle di più? Anche perché, se non mi sono ingannato, so cosa farà questa maestra oltre a riposarsi: leggerà, studierà, penserà le migliori cose per il prossimo anno: perché durante l’anno puoi correggere, sistemare le attività, ma non crearle dal nulla. E aggiungo, chiederei che lo stipendio le sia raddoppiato. Sì, perché la qualità si paga e questa maestra il suo lavoro l’ha fatto “al top”. E non è un lavoro che possono fare tutti. Ma, anche senza aumento, lei lavorerà così in ogni caso, poiché non credo abbia scelto l’insegnamento in quanto “posto fisso”, ma perché lei ha una cosa simile a una “vocazione”. E di questo non è che si possa tanto parlare.

Se ci sono cose di cui, invece, bisognerebbe parlare sono due dei gravi e decisivi problemi che la scuola italiana si ritrova addosso (peraltro già ben evidenziati da Alessandro D’Avenia): il controllo della qualità minima e la valorizzazione del merito. Il sistema pubblico, lo sappiamo, non sembra avere né la capacità di allontanare quegli insegnanti che scaldano la sedia, né di valorizzare il merito di chi la sedia non la fa scaldare agli alunni. E i due ricevono, a fine mese, lo stesso stipendio: un regalo per il primo, un compenso non adeguato per il secondo. Se non si individua un sistema per valorizzare questo merito, è ovvio che ogni insegnante, dal fannullone allo zelante, avrà buone ragioni per lamentarsi, e arriverà anche all’assurdità di dire che due mesi di “vacanze” sono pure pochi.

D’altro canto, quale strada di crescita (carriera) offre lo stato a chi in classe non “spiega il libro” ma offre percorsi frutto del proprio lavoro di studio? A chi sviluppa una didattica (realmente) personalizzata per i vari Dsa, invece che dare a tutti un sei politico? A chi ritiene che un consiglio di classe dovrebbe durare tutto il tempo che serve a parlare degli alunni e non il tempo prestabilito? A chi ritiene che le uscite didattiche siano una grande occasione se pensate e preparate dai docenti insieme agli studenti e non affidate alla più economica agenzia di viaggi? A chi crede che sia una cosa poco onesta prendere la malattia nei giorni prima del ponte sapendo che la visita fiscale difficilmente arriverà se il domicilio dichiarato è in una regione diversa da quella della scuola in cui si presta servizio? A chi, come dice spesso il mio collega e amico Valerio Capasa, non vede l’ora che sia lunedì per tornare in classe? E cosa può offrire a chi, “folle”, volesse lavorare anche a luglio?

L’educazione e l’istruzione sono settori che hanno (o dovrebbero avere) configurazioni mobili, flessibili, capaci di seguire non solo i (sacrosanti!) diritti dei lavoratori, ma i propri destinatari, mobili, flessibili e dinamici pure loro. Mentre la scuola italiana appare ingessata in schemi e rituali difficili da smantellare. E la prima crepa nel muro non può che essere l’introduzione di sistemi di valutazione del merito e una forma di flessibilità che permetta a chi vuole lavorare di più di farlo, con contratti ad hoc. Solo così si darebbe spazio allo sviluppo di una nuova professionalità legata alla professione docente, sviluppo che porterebbe con sé anche la crescita dei diritti, dei compensi e probabilmente del riconoscimento del suo valore — anche da parte di chi crede (soprattutto in Lombardia) che se non stai al lavoro almeno dodici ore al giorno, non puoi essere “produttivo”.

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