Il caso della prof di Palermo sarebbe stato solo «siciliano»

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di Rossella Latempa, il manifesto  7.6.2019

– Autonomia leghista. Cosa sarebbe arrivato al dibattito pubblico nazionale, se i fatti si fossero verificati in epoca di competenze rafforzate su base regionale? Il progetto di autonomia differenziata, pronto ad arrivare in Consiglio dei ministri, avrebbe disegnato veri e propri sistemi scolastici a sé stanti, uno per ciascuna regione, con piena potestà legislativa in tema di “organizzazione del sistema educativo regionale di istruzione”, oltre che “organizzazione del rapporto di lavoro”

La sospensione della professoressa palermitana che non aveva vigilato su una ricerca dei suoi studenti, montata a ridosso delle elezioni europee, arrivata sulle pagine del Guardian (19/05/2019), ha sollevato lo sdegno e la risposta, da Torino a Cosenza, attraverso la rete e i social. Appelli, “autodenunce” di gruppi di insegnanti, mozioni di interi collegi docenti. Nelle piazze, presidi di solidarietà, letture della Costituzione. I docenti italiani hanno dato prova di partecipazione, di appartenenza ad un progetto comune.

Si sono risollevate le coscienze rattrappite da anni di campagne ideologiche e da una “de-statalizzazione e regionalizzazione strisciante” (R. Calvano, lacostituzione.info, 20 maggio 2019), che hanno ridotto gli insegnanti a scrupolosi travet e la scuola a una controfigura burocratica di se stessa, tutta “progetti e territorio”.

E proprio mentre la professoressa di Palermo rientrava nelle sue classi , accolta in Parlamento con i suoi studenti dalle senatrici Segre e Cattaneo, il ministro Salvini – in nome dei recenti risultati elettorali – tornava con forza ad esigere il suo conto: autonomia differenziata subito. L’istruzione è uno dei nodi centrali del progetto di differenziazione delle competenze regionali attualmente in discussione; gli insegnanti rappresentano una fondamentale “moneta politica di massa” (M. Villone) – oltre che risorsa economica – su cui i governi regionali vogliono mettere le mani, per controllarne reclutamento, formazione, carriere e trasferimenti. Un potere politico di gestione enorme, che una volta acquisito da alcuni governatori – i più efficienti, i più arroganti – diventerà rivendicabile da tutti gli altri.

Cosa sarebbe accaduto alla professoressa di Palermo in una scuola “regionalizzata”? Cosa sarebbe arrivato al dibattito pubblico nazionale, se i fatti si fossero verificati in epoca di competenze rafforzate su base regionale? Il progetto di autonomia differenziata, pronto ad arrivare in Consiglio dei ministri, avrebbe disegnato veri e propri sistemi scolastici a sé stanti, uno per ciascuna regione, con piena potestà legislativa in tema di “organizzazione del sistema educativo regionale di istruzione”, oltre che “organizzazione del rapporto di lavoro”.

Controllo più stretto, e squisitamente politico, su condotte e posizioni personali dei lavoratori, ma anche norme disciplinari e obblighi contrattuali “territorializzati”, previsti da disciplina integrativa locale. Finanche possibilità – come nel caso del Veneto – di definire “le finalità e le funzioni” dell’istruzione: il cosa, il perché e il come studiare. Storia, lingua, cultura e tradizioni locali: la “simbologia” fondativa, il nutrimento di una coscienza nazionale o separatista. E’ questa la grammatica di base su cui il potere regionale vuole mettere le mani.

Come avrebbero reagito, allora, gli insegnanti e gli studenti della scuola piemontese, lombarda, emiliana, se una sanzione ritenuta sproporzionata o illegittima fosse stata data a un’insegnante della scuola veneta? Si sarebbero levati lo stesso sentimento di indignazione, la stessa partecipazione di oggi? Difficile crederlo. La frantumazione territoriale del senso di appartenenza ad un’istituzione nazionale e delle passioni da esso suscitate, sarebbero andate di pari passo con la frantumazione contrattuale e geografica. Il coinvolgimento sarebbe stato a scarto ridotto, il particolare avrebbe prevalso sull’universale: “Affare della scuola veneta”, si sarebbe detto; “compito degli insegnanti e dei sindacati veneti intervenire”, si sarebbe pensato.

Ecco perché, lungi dall’essere un problema di efficienza, la regionalizzazione dell’istruzione è prima di tutto una questione culturale e politica. Ci sono sentimenti che “devoluti” e rimpiccioliti su scala territoriale semplicemente svaniscono. Oggi, pur con le differenze e le disuguaglianze ben visibili e da combattere, esiste ancora una scuola nazionale, con i suoi “programmi”, i suoi contratti, i suoi concorsi e uno sfondo di diritti e di valori in cui riconoscersi e in nome del quale mobilitarsi, impegnandosi in una battaglia comune. Questo, nell’istruzione differenziata, non avverrà più. Ogni regione avrà i suoi affari da sbrigare. E ogni regione combatterà le sue piccole battaglie.

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