di Niccolò Gaetani, La Stampa 12.10.2015.
I poteri del super-preside
L’articolo 9 della riforma, quello sulle competenze del dirigente scolastico, è stato senza dubbio il più contestato. D’ora in avanti sarà infatti il capo d’istituto a decidere su assunzioni e licenziamenti, valutazioni e premi in denaro per i docenti. E ai dirigenti toccherebbe, inoltre, la predisposizione del Piano triennale dell’offerta formativa. Sono “superpoteri” che potrebbero creare un clima di eccessiva competitività tra gli insegnanti, a discapito del ruolo educativo della scuola, e che farebbero gridare allo scandalo uno come Salvemini, contrario a ogni forma di centralizzazione del potere che potesse minare la libera concorrenza di idee. E se nei primi del ‘900 bastava un nulla perché l’insegnante eterodosso fosse punito dal patrono del luogo con trasferimento per ragioni di servizio, allo stesso modo oggi le tante facoltà attribuite ai presidi rischiano di “espropriare i docenti delle loro idee e di annullarli tutti in una sciatta e desolata uniformità”. Perché o è la scuola della concorrenza di idee opposte o non è, pensava Salvemini, prima di aggiungere: “Noi dobbiamo affermare l’indipendenza dell’insegnante nella scuola pubblica, da tutte le chiese e da tutti i partiti politici”. Queste sue convinzioni, allo stesso tempo socialiste (nei fini di giustizia) e liberali (nel metodo), lo porterebbero ad avere nei confronti dei presidi la stessa avversione che al tempo provava per clericali e massoni. Come sottolinea Pecora, infatti, “Salvemini si era speso perché nessun docente smarrisse il centro della propria vita, quel centro che per ognuno è l’autonomia della coscienza morale… Per sciogliere gli insegnanti dal sistema di ricatti e intromissioni che appunto quella vita e quella coscienza morale piegavano all’arbitrio di altri”.
Scuola pubblica o scuola privata?
Fin dal 1907, anno in cui a Napoli si svolse il sesto congresso degli insegnanti delle scuole medie, Salvemini – un socialista sui generis, dicevamo, ma anche e soprattutto un educatore – non ebbe remore a individuare nella libera concorrenza il fondamento degli istituti laici. Concorrenza, quindi, anche con le paritarie: “Chi ha miglior filo, tesserà migliore tela”. A questo punto, però, l’intellettuale pugliese precisa che “i poteri pubblici alle scuole private non devono concedere sussidi o protezioni di nessun genere”. Guai a riservare loro un trattamento privilegiato, come di fatto ha deciso di fare Renzi (e prima di lui, è bene ricordarlo, il governo di centro-sinistra, nel 2000, e il governo Berlusconi nel 2005) perché “sugli umori del mercato potrebbe nascere la muffa parassita del dumping”. L’assunto da cui parte l’attuale governo è però diverso: con i dieci milioni di studenti della scuola statale e il milione e passa che frequentano la non statale, si può dire che il sistema di educazione pubblica nazionale poggi ormai su due gambe. Così si spiegano gli incentivi previsti dal nuovo disegno di legge: lo school bonus, finanziamenti che partner privati potranno devolvere agli istituti scolastici, e la detrazione fiscale (fino a 400 euro l’anno) per coloro che mandano i figli nelle scuole paritarie. Il 5 per mille è stato invece stralciato, per il pericolo che si potesse aggravare la sperequazione tra scuole ricche e povere della stessa città e di aree diverse del Paese. Un rischio, sostengono i critici, tutt’altro che scongiurato. I finanziamenti – e comunque la maggior parte di essi – verranno infatti indirizzati verso quegli istituti frequentati da figli di benestanti. Una pratica già molto diffusa nel nord Italia, dove privati, fondazioni e imprese da tempo aiutano le scuole. Questo processo punta deciso verso la “aziendalizzazione” della scuola pubblica, a favore dei dirigenti scolastici e dei loro sponsor territoriali. Funzionerà? La risposta in questo caso Salvemini la fornisce in un editoriale apparso sull’Unità il 17 aprile 1914, nel quale, smessi i panni dell’erudito pacato e liberale, con ironia e un sarcasmo vagamente anticonformistico esprime la sua analisi sociale: “… Il cattivo funzionamento di tutte le scuole non si deve attribuire tanto all’essere o non essere pubbliche o private, quanto all’indifferenza che tutte le famiglie, di qualunque partito o di nessun partito, hanno per la scuola. Le famiglie mandano i figli a scuola , come li mandano a messa, come li lasciano andare al postribolo se si tratta di maschi, o a nozze se si tratta di donne. Dove c’è scuola pubblica, mandano il figlio alla scuola pubblica; dove c’è la sola scuola privata, lo mandano alla scuola privata; dove c’è una scuola pubblica e una privata, lo mandano alla scuola privata dopo che è stato bocciato alla scuola pubblica, oppure preferiscono la scuola privata perché fornita di un convitto che consenta loro di sbarazzarsi del tutto del caro rampollo… L’Italia è un paese di pelandroni: clericali, anticlericali, conservatori, rivoluzionari, pubblici, privati, sono tutti eguali – questa è la verità; e questa è la spiegazione del cattivo funzionamento di tutte le scuole, e non solo delle scuole!”.