di Luisa Ribolzi, Il Sole 24 Ore, 26.3.2018
– Nel 2015, la “buona scuola” dichiarava che, finalmente, si sarebbe posto fine al precariato, garantendo la continuità e la qualità dei docenti. Non è stato così: grazie alle deroghe al complicato maxi piano di assunzioni previste a partire dal 2016, in due anni sono state presentate oltre 350 mila domande di mobilità, a cui se ne aggiungeranno probabilmente 80/90 mila. Nel complesso, è ragionevole stimare che ne siano state accettate un pò più della metà. Quanto al precariato, le graduatorie a esaurimento si sono molto ridotte, ma gli incarichi a tempo tra il 2015 e il 2017 sono saliti da 118 a 126 mila, anche se l’incidenza proporzionale è leggermente diminuita (da 14,6% a 14,4%), e gli iscritti nelle graduatorie di istituto non sono tenuti a passare dal tirocinio. Il recente contratto prevede la possibilità di trasferirsi dopo un anno se si viene accettati nell’ambito, ma non nella scuola, in cui si è fatta domanda, e quindi il turn over, passato da 21,9% tra il 2004/2005 e il 2005/2006 a 29% tra il 2015/2016 e il 2016/2017 non pare destinato a ridursi. Queste cifre significano che in tre anni hanno visto venire meno la continuità didattica gli alunni di circa 200mila insegnanti che si sono trasferiti, più il centinaio di migliaia che avevano un supplente, più, se vogliamo, gli studenti delle scuole paritarie i cui insegnanti, in graduatoria, hanno optato per lo Stato.
Attribuire alla Buona Scuola questa situazione disfunzionale sarebbe però scorretto; possiamo piuttosto accusarla di essersi illusa di risolvere con un tratto di penna e cospicui finanziamenti due problemi presenti da sempre nella scuola italiana, l’eccesso di mobilità e il precariato, a cui quasi tutte le riforme nel secondo dopoguerra avevano dichiarato con tranquilla quanto errata sicurezza che avrebbero posto fine. Quanto alla mobilità, con Colucci e Gallo si può parlare dell’insegnamento come di un vero e proprio fenomeno di «migrazione interna» ( “In cattedra con la valigia”). Questo non deve stupire: in mancanza di possibilità di carriera, il solo miglioramento possibile è spaziale: ritorno a casa, avvicinamento alla residenza, spostamento da una scuola di periferia a una del centro città.
Da questi dati si possono trarre tre conclusioni. La prima è che, ancora una volta, la scuola si è mostrata finalizzata agli interessi dei docenti, e non degli studenti. La seconda è che, nell’equilibrio fra norme e concertazione, l’ago della bilancia si è spostato verso la concertazione, abolendo o indebolendo le decisioni viste con ostilità dagli insegnanti, o dai loro rappresentanti. Infine, se permangono le condizioni di reclutamento centralizzato, non è e non sarà mai possibile ridurre il «mismatch geografico e disciplinare» fra gli insegnanti assunti e gli effettivi bisogni della scuola denunciato da Barbieri e Sestito ne “La giostra degli insegnanti”, assicurando quella formazione di qualità cui ha diritto, oltre che ogni ragazzo, il paese nel suo insieme. Solo un reclutamento diretto delle scuole o delle reti di scuole all’interno di un corpo docente accreditato dallo Stato potrà segnare un’inversione di tendenza. Rispetto all’attuale sistema, che ha il raro pregio di scontentare gli studenti, le loro famiglie, i dirigenti e molta parte degli stessi insegnanti.
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