di Fernanda Mazzoli, Roars, 27.1.2020
– L’insistenza posta da documenti ministeriali e da pedagogisti di riferimento sulla scuola come comunità educante solleva una serie di interrogativi di fondo. Primi fra tutti se si debba ormai dare per avvenuta la scissione fra istruzione ed educazione – entrambe necessarie per il maturare di una libera personalità – insieme al progressivo appiattimento della prima nella seconda, fino all’assorbimento e alla perdita di quella specificità culturale della scuola legata all’acquisizione critica di un sapere storicamente elaboratosi nel tempo. La genericità della locuzione, comunità educante, oggi anche inserita nel Contratto Collettivo Nazionale dei lavoratori della scuola, ha un sapore vagamente umanistico e solidaristico; si presta bene a raccogliere istanze anche molto diverse fra di loro attorno ad un minimo comun denominatore che si vorrebbe inattaccabile: chi potrebbe trovare da ridire sulla proposta di un percorso articolato su un progetto educativo- capace cioè di farsi carico non solo dell’istruzione, ma di un insieme di competenze sociali, affettive, comportamentali- da realizzarsi in modalità cooperativa, attraverso la collaborazione di tutti coloro che sono coinvolti nel processo di crescita degli studenti?
L’insistenza posta da documenti ministeriali e da pedagogisti di riferimento sulla scuola come comunità educante solleva una serie di interrogativi di fondo che investono la natura stessa dell’istituzione, nonché la sua finalità sociale.
L’allettante appellativo, con la duplice vaga sollecitazione di impronta umanistica e solidaristica, potrebbe, però, essere il velo di Maya sotto il quale si cela una creatura piuttosto inquietante. Ne coglie il profilo con acume e rigore argomentativo Paolo Di Remigio, il quale denuncia non solo l’avvenuta scissione fra istruzione ed educazione– entrambe necessarie per il maturare di una libera personalità- consumata dalla comunità educante, ma anche il progressivo appiattimento della prima nella seconda, fino all’assorbimento e alla perdita di quella specificità culturale della scuola legata all’acquisizione critica di un sapere storicamente elaboratosi nel tempo.
Viene a meno, così, quel momento di necessaria discontinuità della scuola rispetto alla famiglia che, nel rispetto delle due sfere, dovrebbe garantire al ragazzo il passaggio dal piano comportamentale, posto sotto il segno della condotta, a quello propriamente intellettuale, caratterizzato dalle conoscenze acquisite e rielaborate, acquisite in quanto criticamente rielaborate. Si finisce, pertanto, per scardinare un paradigma formativo ispirato ad un principio di equilibrata relazione tra due ambiti vitali fondamentali (la scuola, la famiglia) da un lato, e dall’altro si sposta sempre più il baricentro della scuola dal campo delle conoscenze a quello delle modalità di comportamento.
Questo slittamento già di per sé grave in termini di impoverimento culturale fornisce, inoltre, i presupposti di un condizionamento educativo che rischia di minacciare la libertà del soggetto, nonché, in prospettiva, la stessa libertà politica.
Il Contratto Collettivo Nazionale del 2018 all’articolo 24 accoglie la definizione di scuola come comunità educante da una parte richiamandosi all’articolo 3 del DLGS 297/ 94 che già caratterizzava la scuola come comunità, dall’altra arricchendolo sia attraverso un esplicito riferimento all’educazione, sia allargando tale comunità a famiglie, studenti e personale Amministrativo, tecnico e ausiliario.
L’espressione non è di conio ministeriale, ha una storia pluridecennale alle spalle che risale agli anni ’70, quando in occasione delle prime elezioni degli organismi collegiali una parte consistente del mondo cattolico si riunì intorno a questa denominazione. Non è casuale che diverse scuole private cattoliche già da tempo abbiano fatto della comunità educante la cifra della loro proposta formativa, sino ad auspicare il passaggio dalla scuola istituzione alla scuola comunità.
Tuttavia, la formulazione dell’articolo 24 del CCNL non sembra proprio rispondere ad una visione integralista della formazione, in quanto sottolinea senza possibilità di equivoci la priorità del dialogo, della ricerca e di un’esperienza sociale improntata ai valori della democrazia e della crescita della persona. Eppure, la comunità educante suscita dubbi e perplessità che non valgono a rassicurare né le precisazioni del testo contrattuale, né le indicazioni in materia del MIUR, o le considerazioni dei pedagogisti e che alimentano, piuttosto, le preoccupazioni cui ha dato voce Di Remigio.
Certamente, la vaghezza dell’ espressione si presta ad uno spettro interpretativo piuttosto ampio che ne mette in luce la sostanziale ambiguità, al punto che qualcuno suggerisce perlomeno di passare dall’ educante, con quanto di scontato e realizzato esso comporta, all’educativa che privilegia la tensione verso un orizzonte cui tendere, piuttosto che registrare un risultato già dato.
L’articolo del contratto mira, a parere di chi scrive, più a ricomporre un mondo della scuola sconquassato e diviso da un ventennio di riforme che a circoscrivere con precisione perimetro e caratteristiche dell’esperienza scolastica. La genericità della locuzione, dal sapore vagamente umanistico e solidaristico, può rispondere alla necessità di coagulare istanze anche molto diverse fra di loro attorno ad un minimo comun denominatore che si vorrebbe inattaccabile: chi potrebbe trovare da ridire sulla proposta di un percorso articolato su un progetto educativo- capace cioè di farsi carico non solo dell’istruzione, ma di un insieme di competenze sociali, affettive, comportamentali- da realizzarsi in modalità cooperativa, attraverso la collaborazione di tutti coloro che sono coinvolti nel processo di crescita degli studenti? Proprio questa pretesa totalizzante sembra, però, giustificare i timori espressi da Paolo di Remigio. Contro ogni facile retorica, fertile humus per il vuoto culturale o la manipolazione ideologica, occorre, infatti, porre alcune domande tanto semplici quanto fondanti: educare chi, a che cosa e come ?
La lettura dei Piani Triennali dell’Offerta Formativa di cui devono dotarsi gli Istituti e di svariati documenti del Miur non lascia molti dubbi in proposito: si educa a tutto, come sottolinea Edoardo Gianfagna che si diverte ad elencare una cinquantina di “educazioni” che compongono il variegato mosaico in cui prende forma la comunità educante. La lista, lungi dall’essere stata partorita dalla maliziosa fantasia dell’autore dello studio (e che potrebbe peccare più per difetto che per eccesso), documenta con minuziosa precisione la sbizzarrita e disinvolta progettualità abbattutasi sulla scuola negli ultimi anni e destinata a limitare seriamente, quando non a travolgere, gli insegnamenti disciplinari il cui monte ore si ritrova necessariamente eroso dal massiccio incombere di iniziative dedicate all’intero ventaglio degli umani comportamenti, passati, presenti e futuri, in atto e in potenza. Alimentazione, salute, viabilità, legalità, affettività, multiculturalità, problematiche inerenti a vecchie e nuove dipendenze, raccolta differenziata, comunicazione non ostile rappresentano solo alcune delle educazioni offerte dalle scuole di ogni ordine e grado, spesso delegate ad esperti esterni, professionisti, enti pubblici e privati, associazioni più o meno caritatevoli. Non più educazione della ragione e dei sentimenti maturata, in un percorso lungo, difficile e anche contraddittorio e conflittuale attraverso l’incontro dialogico con i saperi disciplinari, ma un insieme di prescrizioni attorno alle quali costruire un saper-essere preordinato, socialmente conforme.
La comunità educante finisce sicuramente per segnare un punto importante a favore della didattica delle competenze, in quanto allontana o pone in secondo piano la trasmissione delle conoscenze, l’assunzione in tutta la sua problematicità e complessità di un patrimonio culturale che, per essere stato elaborato dalle generazioni pecedenti, non smette tuttavia di inverarsi nel nostro vivere collettivo e di richiedere il nostro attivo e critico apporto. Le recenti modificazioni dell’esame di maturità accolgono, d’altronde, pienamente questa logica e la consacrano nello spazio dedicato ad una materia, Cittadinanza e Costituzione, dai contorni quanto mai fumosi, per non dire vacui e che il richiamo alla Carta costituzionale non basta certo a sostanziare. Le competenze richieste, ancor più che ancorate alla dimensione del saper fare tanto sbandierata dalla buona scuola, tendono a spostarsi sempre più verso quella del saper essere dove, sul terreno insidioso per la sua esibita carica positiva ed universalistica delle buone pratiche e dei corretti stili di vita, è inevitabilmente in agguato il rischio della manipolazione psicologica e della misitificazione sociale.
Le educazioni si offrono, dunque, come pillole di saperi minimali e specifici, immediatamente spendibili nella vita sociale, svincolate dai loro legami con la complessa trama del sapere (fondamenti teorici, storia, articolazioni interne e interdisciplinari, microlingua), semplici da comprendere ed accattivanti nella loro falsa aderenza ai mondi vitali. Sottraendosi a qualsiasi gerarchia di valore e a qualsiasi sforzo di appropriazione e rielaborazione (richiesto dall’ acquisizione delle materie di studio), realizzano anche nella scuola quella mercificazione che ha permeato ogni ambito dell’esistenza e veicolano quell’appiattimento sul presente e sull’apparenza fortemente voluto dalla società di mercato che, nello spettacolo delle merci, consuma la propria apoteosi. E’, in definitiva, a un consumatore che si rivolge la comunità educante dei nostri tempi, ma a un consumatore che si vuole rendere attivo, informato, capace di scegliere fra i vari prodotti proposti, a partire da quelli culturali. Tuttavia, come è noto, la libertà di scelta in una società capitalistica avanzata comporta l’obbligo di scegliere fra alternative, per quanto numerose, tutte interne ad un quadro precostituito ed esclude la possibilità di pensare oltre e al di fuori dello schema dato, o di metterlo in discussione.
La densità concettuale e storica che si dispiega attorno al termine di comunità solleva tante e tali questioni (disinvoltamente eluse dalla vulgata pedagocica) che non è qui possibile affrontare. Mi limiterò ad accennare a due aspetti dalle implicazioni notevoli, se non decisive, nell’attuale contesto scolastico. Al di là delle intenzioni concilianti di coloro che hanno ripescato la denominazione, non si può infatti tralasciare di considerare che la comunità educante opera in un contesto organizzativo e culturale normato dalle disposizioni in materia di autonomia scolastica e dalla legge 107. Come si pone, allora, tale comunità rispetto alle esigenze ed alle pressioni del territorio in cui opera, nei confronti delle quali le riforme dell’ultimo ventennio raccomandano grande attenzione? Come si pone rispetto ad uno snodo strategico della buona scuola quale l’alternanza scuola-lavoro, opportunamente e non casualmente ribattezzata Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento? E’ da prevedere che la mitizzata impresa entri a pieno titolo a fare parte della comunità educante (per ora ristretta a docenti, studenti, famiglie e Ata), conformemente, d’altronde, a numerose indicazioni europee sulla centralità del nesso scuola-azienda, a partire dal Libro Bianco di Edith Cresson? E’, questo, un punto di non poco conto e proprio la mancanza di riferimenti in merito desta legittime preoccupazioni, considerata l’insistenza sulla valenza formativa della cultura d’impresa diffusa a piene mani da direzioni diverse e convergenti. D’altronde, come si è precedentemente sottolineato, le scuole hanno già spalancato le porte ad una congerie disparata di figure ed associazioni rivendicanti a diverso titolo una finalità educativa chiamata ad integrare ed orientare (se non, talora, sostituire) quella tradizionalmente offerta dall’ istituzione, né il processo sembra destinato ad esaurirsi per saturazione o necessaria verifica dei risultati ottenuti. Le agenzie formative pronte a sostenere la comunità educante attraverso la fornitura dei loro servizi, vale a dire le molteplici e tentacolari educazioni, sono diversificate per ambiti d’interesse e competenze, snelle quanto a contenuti, attrattive quanto a modalità d’intervento, privilegiando spesso l’approccio ludico od emozionale.
L’altro processo denso di conseguenze innescato dalla comunità educante è rappresentato dalla progressiva trasformazione del docente in mero educatore, attraverso l’assottigliamento, se non la perdita, della dimensione intellettuale della professione in favore di una generica funzione di operatore sociale in un servizio educativo. In questo slittamento, il docente perde la specificità della sua figura professionale, ovvero il legame specifico con la materia insegnata, con un insieme di conoscenze da trasmettere e ripensare nella relazione dialogica con il discente e si avvia a divenire (in alcune situazioni questa è già realtà) un organizzatore di progetti, un animatore di attività di classe, un dispensatore di buoni consigli, un propagandista di corretti stili di vita, un addestratore al superamento di test, un imbonitore capace di muoversi con agilità nel grande supermercato dell’offerta formativa. Un disastro che sarebbe riduttivo leggere solo in termini professionali, perché è innanzitutto un disastro culturale che investe l’intera società, preludendo a quella scuola dell’ignoranza, funzionale alle dinamiche dell’attuale società di mercato, il cui spettro si aggira ormai per tutta l’Europa, senza suscitare il necessario allarme e la necessaria resistenza e risposta.
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La fiera delle educazioni ultima modifica: 2020-01-28T05:56:53+01:00 da