di Marina Boscaino, Il Fatto Quotidiano, 11.9.2020.
Mi è stato chiesto di scrivere – in prossimità dell’inizio delle lezioni – un post un sulle aspettative, le ansie e le sorprese – anche positive – che potrebbe rivelare questo nuovo (e inedito) anno scolastico.
Lo dico chiaramente: le sorprese, anche positive, sono affidate ad un unico soggetto, il Coronavirus; qualora, miracolosamente, decidesse di scomparire dalla nostra vita e dal nostro immaginario. Sulle sorprese che possono riservare gli uomini e le loro decisioni: beh, permettetemi qualche perplessità, considerate le condizioni in cui le scuole si stanno accingendo a riaprire, in un bricolage della normativa autonoma, del fai da te dell’organizzazione, alimentato da un lato dalla trasmissione da parte del Miur della “patata bollente” ai singoli istituti; dall’altro dal comprensibile terrore dei dirigenti, responsabili penalmente in caso di criticità nella scuola.
La scelta di riaprire è anzitutto – e forse unicamente, ce lo dirà il futuro – politica. E così assistiamo al balletto di tutto e del contrario di tutto: mentre il presidente Conte e la ministra Azzolina continuano ad ostentare una rassicurante fiducia, ma le regioni scelgono date differenti per la ripresa, chi – dal primo settembre e da molto prima – sta lavorando nelle scuole sa che diffusamente la situazione non è certamente quella che vogliono farci credere.
Le scuole, salvo rarissime eccezioni e nonostante un impegno alacre, non sono pronte ad un inizio così ravvicinato. Non lo sono perché hanno di fronte una serie di punti interrogativi che riceveranno una risposta concreta solo quando in quegli edifici si trasferiranno – in un dato giorno e tutte insieme – centinaia e centinaia di studenti e lavoratori. In una situazione in cui, ancora oggi, il banale fatto di mandare in bagno un alunno rappresenta un grande punto interrogativo. Non parlo poi delle carenze strutturali, ancora oggi enormi, come l’assenza dei proverbiali banchi monoposto.
Il punto è che, in assenza di certezze e nel balletto tra normativa, protocolli, linee guida, tra rassicurazioni e catastrofismi (è sconsigliato l’uso della carta: i compiti degli studenti dovranno essere tenuti negli armadietti due giorni dopo la consegna e amenità di questo tipo; la distanza tra bocca e bocca, passata da 4 metri a 1, per non affrontare il decennale sovraffollamento delle aule e la carenza strutturale di personale, docente e Ata, solo per fare esempi solo apparentemente ironici, in realtà drammatici) la scuola sta andando verso il salto nel vuoto.
Una aggettivazione lasca caratterizza i documenti: l’aerazione deve essere “adeguata”. Che vuol dire? Qual è la misura dell’adeguatezza? Dietro ognuna di queste dizioni ambigue ed interpretabili si nascondono lavoro solerte e incertezze.
Nelle maglie della contrapposizione tra ottimismo e drammatizzazione è difficile trovare un principio di realtà. E così, in una condizione di “emergenza” – che, in quanto tale nulla ha di normalità, ma non si sa bene quanto motivata – tra pareri di esperti spesso in disaccordo, passano provvedimenti, diktat, indicazioni destinate fatalmente a cambiare – e definitivamente – il volto della scuola. Non solo dal punto di vista planimetrico e degli arredi: via qualsiasi suppellettile, dalle lavagne agli armadietti, che tolgono posto ai banchetti. Occupate le aule per le riunioni, persino le rare postazione di lavoro dei docenti sono state smantellate, insieme – talvolta – a muri, tramezzi, corridoi. L’impressione è quella di essere le cavie di un esperimento socio-sanitario; che dio – o chi per lui – ce la mandi buona.
La scuola sta cambiando volto soprattutto dal punto di vista della sua funzione e della sua finalità. All’acronimo Dad si è sostituito quello che i fan dell’abbreviazione chiamano ora Ddi: didattica digitale integrata. E gli attacchi alla libertà di insegnamento sono continui: in questi giorni l’Usr della regione Sardegna ha pubblicato un documento di Proposte operative per la Didattica Digitale Integrata che entra a gamba tesa sulla didattica e sulla formazione dei docenti attraverso indicazioni di tipo prescrittivo.
La didattica è invece libera nel quadro dei saperi disciplinari nazionali, delle metodologie, degli approcci, delle impostazioni; la formazione è altresì libera: nessuno può imporre nulla ai docenti.
La libertà d’insegnamento è prima di tutto un pilastro delle società democratiche e le distingue dai regimi autoritari; pertanto essa non si configura come diritto di un singolo o di un gruppo di persone, ma dell’intera collettività; è anche un pilastro dell’efficacia dell’insegnamento, perché solo il singolo docente può sapere quali metodi e strumenti adottare in base alla situazione, agli allievi, alla sua esperienza.
Nel documento sardo si legge invece che ogni scuola dovrà “elaborare un piano scolastico per la didattica digitale integrata da allegare al Ptof” e “considerare la Ddi come una metodologia innovativa di insegnamento-apprendimento per gli studenti della scuola secondaria di II grado, e come modalità didattica complementare che integra la tradizionale esperienza di scuola in presenza”. Ciò significa che la didattica a distanza potrebbe diventare obbligatoria anche dopo l’emergenza Covid-19, con il rischio di sostituzione della scuola in presenza. Una tentazione che ritorna.
Si arriva addirittura ad individuare alcune specifiche metodologie come “quelle da utilizzare per didattica digitale integrata” facendo riferimento alle Linee Guida della Ddi: “la lezione in videoconferenza agevola il ricorso a metodologie didattiche più centrate sul protagonismo degli alunni, consente la costruzione di percorsi interdisciplinari nonché di capovolgere la struttura della lezione, da momento di semplice trasmissione dei contenuti ad agorà di confronto, di rielaborazione condivisa e di costruzione collettiva della conoscenza.”
L’allarme, la situazione di emergenza, persino il pericolo di un aggravamento sotto il profilo epidemiologico non possono essere usati come un grimaldello per portare un attacco ad un principio che è il fondamento della professione dell’insegnamento.
Assistiamo ad una tendenza diffusa – e tanto più allarmante quando si tratta di documenti istituzionali – ad assumere come definitive soluzioni che non hanno e non possono avere alcuna altra funzione che non sia legata alla attuale emergenza e che tendono a distorcere violentemente identità, funzione, prerogative della Scuola della Repubblica: in nome dell’allarme e/o dell’inerzia non possiamo consentire la dismissione di principi alla base del pluralismo e dunque della democrazia.
Il 26 settembre Priorità alla scuola e una larga parte del mondo sindacale – confederale e non – porterà in piazza le ragioni della scuola. Che raccolgono oggi i risultati di 20 anni almeno di annunci seguiti da riforme e riformicchie, tutte all’insegna del risparmio e della perdita di vista del ruolo della scuola della Repubblica come organo costituzionale.
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