Parlare a scuola delle stragi di Parigi. Sì, ma come?

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di Mariangela Vaglio  l’Espresso,  16.11.2015.  

Si dice sempre che l’insegnante deve dialogare con i ragazzi sull’attualità. Ma per non trasformare l’aula nella brutta copia di un talk show televisivo, bisogna dotarli degli strumenti necessari alla riflessione. Il che richiede tempo e metodo.

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Quando succedono eventi come gli attentati di Parigi, l’insegnante che il giorno dopo entra in classe la mattina ha un doppio fardello sulle spalle. Da un lato è un essere umano, ed è quindi lui stesso toccato e scosso da ciò che è accaduto. Come tutti, sui fatti ha il suo punto di vista, che è determinato dalla sua storia pregressa e personale, dalle esperienze che ha avuto, dai valori in cui crede, dalla idee che ha sulla vita e sul mondo.
È quindi uguale a tutti gli altri esseri umani che vivono sul nostro pianeta. Dall’altro lato, però, è un insegnante, e questo lo rende diverso dagli altri, perché ha la responsabilità degli alunni, bambini, ragazzi e giovani, che gli sono stati affidati.
La scuola, si dice sempre, deve parlare dell’attualità e di ciò che succede nel mondo. Tanto più in questo caso, in cui eventi improvvisi irrompono sulla scena della storia. Il problema non è parlarne o no, ma scegliere il come. E il come è legato profondamente all’idea che ciascuno ha della funzione specifica della scuola.
Entrare in classe la mattina e “aprire il dibattito” con gli alunni su quanto avvenuto può sembrare la via più naturale e più facile. È quello che si aspettano, assai probabilmente, sia le famiglie sia chi la scuola la guarda da fuori, ed è anzi pronto a gridare scandalizzato se i ragazzi, tornati a casa, dicono che in classe il docente non l’ha fatto.
Si convincono che l’insegnante in questione sia venuto meno al suo dovere o non voglia affrontare per vigliaccheria l’argomento. Alle volte, invece, una simile scelta è frutto di una sofferta decisione didattica, perché non sempre la cosa che appare a tutti più scontata è anche il metodo migliore da usare in classe, o con tutte le classi.
Qual è la funzione della scuola? Offrire ai ragazzi una serie di strumenti e di metodi per affrontare e comprendere la realtà che li circonda. Non è uno sfogatoio dove bisogna necessariamente occuparsi immediatamente di ogni cosa venga dall’esterno, non è un fast food dove gli argomenti vanno consumati subito, cotti e mangiati.
La scuola è il luogo dove i ragazzi – e noi con loro – dovrebbero imparare ad usare gli strumenti della riflessione sul presente, incastonare i fatti nel loro contesto, ragionare sui fenomeni di lunga durata, capire come essere costruttivi e trarre insegnamenti da ciò che ci circonda. La scuola deve aiutare gli allievi a trovare il metodo con cui ciascuno costruisce il senso di ciò che fa e del mondo in cui vive.
Per questo il “dibattito” sui fatti di attualità non può e non deve essere né un momento estemporaneo in cui si parla di ciò che è successo sull’onda della violenta emozione né un semplice sfogo. E alle volte non farlo “a caldo”, il giorno dopo il fatto, o nei giorni immediatamente successivi, è un atto di responsabilità.
Un dibattito serio ha bisogno di dati certi da cui partire, non sempre reperibili nella confusione del momento. Va costruito ragionando su come scegliere le fonti da cui attingere notizie, interrogandosi su quali aspetti siano davvero importanti e funzionali, imparando a distinguere le opinioni dai fatti.
Parlare degli eventi di Parigi (ma anche di qualsiasi altro evento di attualità) deve tener conto della classe in cui decido di affrontare l’argomento, perché ogni singola classe è diversa e ha diverse esigenze. Sono differenti l’età, la composizione, ma anche proprio il clima. È necessario, e l’insegnante deve valutarlo sulla base della sua professionalità e la sua conoscenza degli allievi, capire se c’è bisogno di lasciarli sfogare, se li si deve rassicurare, se li si deve pungolare e spingere a misurarsi con l’argomento o se invece è bene lasciar sedimentare la cosa ed affrontarla in un’altra circostanza. L’insegnante non è un vile che scappa dal confronto ma nemmeno un incosciente che stuzzica per il gusto di farlo, forzando i ragazzi quando non li vede pronti a scontrarsi con alcune problematiche, perché saper cogliere l’attimo in cui la cosa funziona e riconoscere quello in cui invece no è la base del nostro mestiere.
Aprire il dibattito significa poi educare al confronto. Che non vuol dire, come molti pensano, fare semplicemente il vigile urbano delle varie opinioni, dando la parola e impedendo ai ragazzi di accavallarsi maleducatamente, ma anche impostare lo scambio con criteri “sani”. Pretendere che i ragazzi non diventino replicanti della fuffa da talk show, insegnando loro che se si parla di fatti bisogna averli controllati, e se si citano i dati bisogna prima averli studiati e poi saperli usare come pezze d’appoggio per dare peso alle proprie opinioni.
Tutto questo richiede tempo e studio e preparazione. I dibattiti non si improvvisano lì per lì: vanno costruiti, inseriti in una cornice. Per questo ci vuole tempo, ed anche una dose di freddezza e di distacco, perché degli argomenti bisogna saper analizzare bene le implicazioni, e dei fatti le conseguenze.
Quindi, se oggi o domani qualche insegnante non parlerà in classe dei fatti di Parigi, non diamo per scontato che cerchi di svicolare, o dimostri scarsa sensibilità o interesse verso i grandi temi dell’attualità. Alla volte, perché l’attualità sia trattata bene a scuola bisogna lasciar passare un po’ di tempo, e che non sia più così attuale.
Parlare a scuola delle stragi di Parigi. Sì, ma come? ultima modifica: 2015-11-16T23:40:01+01:00 da
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