di Eugenio Bruno e Claudio Tucci, Il Sole 24 Ore, 10.9.2018
– Almeno a scuola l’Italia è ferma a I no spik inglish dei fratelli Vanzina. Lo confermano gli ultimi test Invalsi sulla conoscenza della lingua straniera tra i banchi. Con il 44% degli studenti di terza media che non raggiungono il livello A2 – e cioè la sufficienza – nella comprensione dell’inglese. Percentuali che al Sud superano il 50 per cento. Un’emergenza nell’emergenza. Per il Mezzogiorno e per il futuro del Paese. Soprattutto alla vigilia del debutto anche alle superiori delle prove standardizzate che pongono l’asticella all’ambiziosa quota di B2. Seppure non conteranno per l’ammissione alla maturità, per effetto di un emendamento al decreto milleproroghe, le prove serviranno comunque a saggiare i livelli di listening e reading dei nostri giovani alla fine dell’istruzione secondaria. Un attimo prima di mettersi alla prova sul lavoro o all’università.
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Il metodo Clil
Se per l’insegnamento dell’inglese valessero i criteri della microeconomia verrebbe da interrogarsi sulla bontà dell’intero processo di produzione. E sul perché l’output lasci così a desiderare nonostante gli input impiegati siano importanti. Sia per una copertura pressoché totale di bambini delle elementari che studiano una lingua straniera, sia per l’allungamento a 13 anni del periodo complessivo in cui viene insegnata (nell’Ue solo Cipro fa di più con 15). Tanto più che è cresciuta di quasi il 15% la quota di alunni delle medie e delle superiori che apprende l’inglese tra i banchi. A questi fattori, nel lontano 2000, l’Italia ha aggiunto poi la sperimentazione del Clil (Content and language integrated learning). E cioè dell’insegnamento in una lingua straniera, generalmente l’inglese, di una disciplina non linguistica, al punto da inserirla (prima in Europa, ndr) già nel 2010 negli ordinamenti scolastici. Diciotto anni e diverse release dopo – da ultima la Buona Scuola che ha proposto agli istituti di estendere il Clil non solo nelle classi quinte delle superiori e anche alla primaria e alle medie – il grado di diffusione nelle scuole sembra ancora limitato. Con i 3 milioni di euro stanziati negli anni 2015/16 e 2016/17 sono stati attivati 250 progetti di reti di scuole con il coinvolgimento di circa 2.000 istituti, metà dei quali del primo ciclo.
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I test Invalsi
A fronte di questi numeri la conoscenza dell’inglese resta debole. Vero è che alla primaria il 79% degli alunni ha conseguito la sufficienza (A1) nella prova d’ascolto. Nella lettura è “in regola” con l’inglese il 92% dei ragazzi. Tuttavia, dietro a quel 79% la situazione è tutt’altro che uniforme sul territorio: si va dal 92% del Trentino al 66% della Sardegna. E poi si peggiora nella scuola media. Il 79% scende al 56% (ascolto), mentre il 92% nella lettura passa al 74 per cento. Con Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna che si confermano in forte difficoltà. Il punto è che i docenti specialisti di inglese sono ormai in via di estinzione e che in molti casi l’insegnamento dell’inglese è affidato a insegnanti scarsamente formati. «Ciò nonostante le scuole provano a supplire – raccontano i vertici dell’Invalsi, la presidente, Annamaria Ajello e il dg, Paolo Mazzoli -. Con progetti speciali, esperti esterni, scambi internazionali, genitori volontari, corsi di preparazione alla certificazione esterna».
Le competenze linguistiche sono fondamentali. «Non solo per le opportunità lavorative che potranno offrire un domani nel mercato del lavoro, ma perchè rivelano indirettamente l’apertura mentale a nuovi contesti – evidenzia Daniele Checchi, economista all’università di Milano, ed esperto di education -. Non meno importante è la correlazione alla capacità di problem solving, in quanto agli studenti è richiesto di adattare l’espressione di un concetto alle capacità linguistiche possedute». Motivi ulteriori, che spingono – se ancora ce ne fosse bisogno – a ingranare una marcia in più in classe e non.
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Più inglese in classe, ma pochi risultati ultima modifica: 2018-09-10T06:16:02+02:00 da