di Claudio Tucci, Il Sole 24 Ore, 25.11.2019
– Precari e stipendi. Stipendi e precari. Per i due governi Conte sono state, e sono tutt’ora queste, le due “questioni urgenti” sulla scuola.
L’ennesimo esempio è il decreto Istruzione, che sta per sbarcare nell’aula di Montecitorio, e dove tutte, o quasi, le modifiche introdotte nel corso dell’esame in commissione, hanno riguardato l’allargamento della platea dei supplenti con 36 mesi di servizio alle spalle interessati al “concorso-straordinario” per conquistare una cattedra a tempo indeterminato. Al momento, l’unico “sussulto”, controcorrente e degno di nota, arriva da un pezzo di maggioranza in Senato, dove Italia Viva (prima firma dell’ex sottosegretario, Davide Faraone, appoggiato dall’ex collega di governo, Gabriele Toccafondi), ha presentato un emendamento alla legge di Bilancio per ripristinare ore e fondi all’alternanza scuola-lavoro, smontata da Marco Bussetti (le risorse scippate ai ragazzi e alle esperienze di formazione “on the job” sono servite a far mantenere ai docenti gli aumenti retributivi riconosciuti con l’ultimo Ccnl, ndr).
I ritardi con gli altri paesi
A nessuno, o davvero a pochi all’interno dell’esecutivo, sembrano interessare i cronici ritardi della scuola italiana, puntualmente fotografati dagli studi nazionali e internazionali: il livello di «analfabetismo funzionale», ad esempio, in Italia è del 30%, contro il 15% della Ue, il livello di competenze «adeguate o elevate» è solo del 30% contro il 65% europeo, abbiamo tassi di abbandoni precoci (14%) di diversi punti più elevati rispetto all’Europa, due ragazzi su tre non hanno trattato a scuola temi di educazione civica (tre su quattro non conoscono la Costituzione) e nelle “literacy e numeracy” (indagini Invalsi e Ocse-Pisa sui 15enni) i nostri studenti sono in serio ritardo.
Il nodo delle competenze
C’è anche tutto questo dietro il grido d’allarme che il mondo produttivo lancia ormai da tempo, e da ultimo agli Stati generali dell’education di Confindustria lo scorso maggio: assunzioni che non si concretizzano proprio perché mancano candidati con le competenze adeguate, richieste dalle imprese. Un paradosso, nel paradosso, in un paese in cui la disoccupazione giovanile è intorno al 30% (peggio dell’Italia nelle classifiche internazionali ci sono solo Spagna e Grecia). Una scuola non al passo con i tempi non aiuta il mondo del lavoro. Ma anche l’università ha le sue colpe. Continuano a uscire giovani sempre meno preparati all’occupazione, dove le professioni del “futuro” cambiano alla velocità della luce, tanto che una laurea di moda oggi, diventerà carta straccia tra pochi anni. Un sistema, quindi, nel suo complesso, che rischia addirittura di penalizzare il mondo del lavoro. Abbiamo sentito esperti, mondo della scuola e del lavoro, e siamo arrivati a contare questi dieci “ostacoli” da rimuovere al più presto.
Il dis-orientamento
Il primo è l’orientamento. L’istruzione tecnica italiana è una eccellenza, come ha riconosciuto di recente anche l’Ocse. Eppure, è poco conosciuta da famiglie e studenti, e da molti docenti delle scuole medie. Ci sono poi pochi iscritti agli istituti tecnico-professionali, nonostante un tasso di occupazione analogo a quello dei laureati. Per non parlare degli Its, gli istituti tecnici superiori, che rappresentano da anni un passepartout formidabile per l’impiego ma che continuano, e siamo al terzo nodo, ad avere numeri di nicchia: intorno ai 12mila frequentanti, l’1% degli studenti terziari. In Francia i giovani che scelgono percorsi di formazione professionalizzante sono il 18%; in Germania, patria del sistema duale, il 34%. Anche oltreoceano, negli Usa, la formazione professionalizzante, nei “Community College”, ha conosciuto un boom di recente. Ecco perché un esperto del calibro di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, auspica un serio investimento sull’istruzione secondaria e terziaria professionalizzante, per farla rapidamente decollare.
I (pochi) laureati Stem
E non va meglio nelle discipline universitarie Stem, che sono le più richieste dal mercato del lavoro. I laureati Stem, è il quarto campanello d’allarme, sono pochissimi in Italia: da noi ogni anno si laureano in queste materie solo l’1,4% dei ragazzi tra i 20 e i 29 anni, con una preponderanza schiacciante dei maschi sulle femmine (rispettivamente 1,2% uomini contro lo 0,2% donne – un gap di genere che si sta allargando, caso unico fra i paesi Ue). In Germania si sale al 3,6%, nel Regno Unito al 3,8% (e il Regno Unito, come noto, non è un paese propriamente manifatturiero).
Esercitazioni pratiche al palo
A ciò si aggiungano altre quattro zavorre storiche: a scuola si fa scarsa pratica laboratoriale e sulle nuove tecnologie: nei tecnici e nei professionali, materie fondamentali come fisica e chimica hanno poche ore di laboratorio a settimana. Poche anche le ore per il disegno. Per non parlare di informatica o, ancor meglio, di pensiero computazionale (il coding) che sta entrando timidamente nelle aule. E ancora: gli apprendistati, che permettono di ottenere un titolo di studio, nonostante sgravi e semplificazioni, non decollano perché è difficile “sincronizzare” i tempi di scuola e università (programmi, verifiche, corsi, esami) con quelli dell’impresa, mancando degli standard condivisi come è in Germania e mancando la possibilità, per le pmi, di condividere gli oneri formativi (come è in Svizzera).
Manca governance condivisa
Per Giorgio Allulli, altro storico esperto di education, il punto è che mancano partnership strutturate tra scuole e imprese (è il nono freno, ndr): nel nostro ordinamento abbiamo le reti di scuole da un lato, le reti di impresa dall’altro. Non esiste una governance condivisa. «Quello che servirebbe, invece – spiega – sono commissioni paritetiche settoriali tra Miur e mondo del lavoro. Sono organismi fondamentali per mettere in sintonia i due mondi». «Molto importanti per avvicinare i giovani al mondo del lavoro – aggiunge Daniele Checchi, economista alla Statale di Milano e altro storico esperto di education – sono anche gli stage e i tirocini universitari, che però – e così arriviamo al decimo e ultimo ostacolo – nessuno presidia e valuta. Sarebbe interessante – è la provocazione che lancia – chiedere alle imprese perché non promuovono scuole tecniche private. Qualche professore, “purista”, potrebbe tuonare contro la formazione al servizio del capitale, ma se poi funzionassero, come credo, si ridurrebbe a silenzio».
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Pochi laboratori e tirocini al palo Scuola-lavoro frenata da 10 criticità ultima modifica: 2019-11-25T06:30:20+01:00 da