Sono giorni decisivi per una delle riforme più importanti di tutto il Pnrr, quella che definirà il nuovo sistema per formare e assumere i futuri docenti delle scuole secondarie e per aggiornare quelli già in cattedra. La qualità degli apprendimenti delle prossime generazioni di studenti dipenderà moltissimo dal decreto legge di fine aprile del governo Draghi, ora in discussione al Senato.

Il testo ha un grande pregio e un grande difetto. Il pregio è che d’ora in avanti per diventare insegnanti di ruolo ci sarà un percorso definito e – si spera – senza nuove scorciatoie o sanatorie: dopo un anno di corso, che integrerà la laurea magistrale, un esame di abilitazione, da superare prima del concorso pubblico di assunzione, accerterà la conoscenza della materia e la capacità di insegnarla. Sembra un’ovvietà, ma per l’Italia non lo è: da anni l’ingresso nella scuola avviene senza preoccuparsi se il futuro docente abbia ricevuto una buona formazione didattica e sappia svolgere la sua professione. Se la riforma darà luogo a una prova seria che verifichi i tanti aspetti che fanno un buon insegnante, la nostra scuola riceverà la spinta necessaria ad attrarre i migliori laureati, avvicinando i sistemi d’istruzione del Nord Europa, che nella qualità dei docenti hanno la carta vincente.

Necessaria, non sufficiente. Per portare i migliori talenti all’insegnamento non basta, infatti, formarli bene e selezionarli con serietà. Occorre anche creare le condizioni di un lavoro di prestigio sociale, nel quale chi si impegna e ha attitudine deve poter assumere maggiori responsabilità. Va capovolta la logica attuale: a un insegnante va chiesto molto e molto va dato. In primo luogo, una carriera che preveda crescenti compiti organizzativi e didattici al servizio della scuola e una crescita retributiva adeguata, legata all’impegno e alle capacità, non solo all’anzianità.

Qui il decreto delude. Rinuncia di fatto all’obbligo di formazione continua per tutti (ma come pensare che un insegnante oggi non debba aggiornarsi?), né delinea alcun meccanismo di carriera. Si limita, invece, a promettere che solo il 40% di quanti seguiranno un triennio di aggiornamento professionale avrà un aumento salariale una tantum. Non funzionerà: perché impegnarsi così a lungo sapendo che solo una minoranza riceverà il premio?

In Parlamento c’è consenso che questa parte del decreto vada modificata. Forse l’accordo si troverà su un emendamento minimalista del Pd: anticipare agli insegnanti che si aggiornano lo scatto retributivo che spetterebbe loro più avanti per anzianità. Lasciando però aperta una questione spinosa: per indurre ad aggiornarsi quei docenti che altrimenti non lo farebbero, l’incentivo economico dovrebbe essere significativo e non temporaneo, evitando l’abituale prassi di irrisori aumenti a pioggia. Ma ciò chiama in causa le risorse che il ministero dell’Economia, finora riluttante, è disposto a mettere sul piatto.

Noi crediamo, tuttavia, che l’occasione del Pnrr dovrebbe spingere la politica a essere più lungimirante. Se si volesse davvero innalzare la qualità dell’insegnamento in Italia per i prossimi decenni, rendendolo un mestiere appetibile anche per chi sarebbe un ottimo docente ma ha alternative professionali, servirebbe una scelta coraggiosa: dare spazio a chi vuole introdurre i presupposti per una vera articolazione di carriera nella scuola, con una percentuale di figure adeguatamente formate e retribuite. Nella scuola e in politica ne parla da 20 anni: è un paradosso che questo governo e la sua maggioranza non siano preparati a farla. La riforma non ancora nata rischia di dover essere riscritta molto presto.

Andrea Gavosto è direttore della Fondazione Agnelli

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