di Gianna Fregonara, Il Corriere della sera, 11.6.2016
– Il tema diventa di attualità in Gran Bretagna e nel mondo anglosassone: non è solo questione di studiare di più le materie scientifiche. E’ il mondo del lavoro a fermare la carriera delle donne, soprattutto se hanno dei figli
Per cercare di combattere il divario uomo/donna nelle carriere scientifiche è in atto da qualche anno il tentativo di spingere con programmi speciali, come quello della Sapienza di Roma per le giovani che si vogliono cimentare con informatica e ingegneria, le ragazze a scegliere una laurea e una carriera nelle cosiddette materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica). I dati del resto in Italia sono sconfortanti: le donne sono la maggioranza degli iscritti all’Università, ma poi scelgono materie umanistiche in prevalenza (35 per cento) e in molte facoltà scientifiche non sono che una su dieci iscritti. L’unica eccezione che riguarda le scienze è la medicina: secondo i dati Ocse del 2011 in Italia il 65 per cento dei medici sotto i trentacinque anni è donna, un dato appena superiore a quello di altri Paesi come la Gran Bretagna (58 per cento), la Spagna (63) e la Francia (60).
Carriera o famiglia?
Se dunque per il momento gli sforzi sono soprattutto per «orientare» gli studi delle ragazze per provare a colmare un divario anacronistico, potrebbe non essere questa la strada giusta. O meglio, gli ostacoli non sono tutti e solo lì, a livello universitario. A suggerire di alzare lo sguardo anche oltre sono due studi sul mondo anglosassone, dove i numeri delle studentesse appassionate di tecnologia come di medicina sono molto più alti di quelli italiani. Secondo il New Scientist magazine le scienziate/ricercatrici hanno smesso di pubblicare i loro articoli negli ultimi anni: dal 2009 la percentuale di autrici nelle riviste scientifiche è in calo costante. L’American Economic Review, in un articolo del mese scorso, ha puntato il dito su una causa diversa: le ricercatrici e le scienziate sono penalizzate dal punto di vista dello stipendio se hanno figli. E’ dunque la famiglia, in un sistema con contratti precari e poca continuità dei progetti, a creare i maggiori problemi alle donne. Si aggiunga un dato: i ricercatori tendono ad avere mogli non lavoratrici, mentre le ricercatrici sono sposate con altri ricercatori o con uomini in carriera. Così le fatiche e le responsabilità casalinghe non sono equamente ripartite.
Non serve arruolare se non si riesce poi a trattenere le donne
Conclusione? Non basta incoraggiare le ragazze verso le discipline scientifiche, bisogna pensare a quello che avviene dopo nel mondo del lavoro. Altrimenti si rischia di «spezzare un soffitto di cristallo» per trovarne subito dopo un altro. Il tema è di attualità nel mondo anglosassone tanto che il comitato scienza e tecnologia della Camera dei Comuni a Londra ha appena messo nero su bianco il suo avvertimento ufficiale: «Gli sforzi di orientare le ragazze alla carriera scientifica sono sprecati se le donne poi sono svantaggiate in modo sproporzionato rispetto ai maschi nella carriera lavorativa». Il problema non è solo quello di «arruolare» donne ma quello di trattenerle.