di Linda Laura Sabbadini, la Repubblica, 3.3.2024.
Secondo la proposta del ministro Valditara la scuola dovrebbe organizzarsi con classi di accompagnamento la mattina e di potenziamento il pomeriggio, se il deficit linguistico ed eventualmente anche matematico degli alunni stranieri lo necessiti. Gli alunni stranieri dovrebbero sottoporsi ad un test al momento dell’iscrizione. Se la conoscenza dell’italiano risulta buona i ragazzi vengono inseriti in classe, altrimenti costituiscono classe a sé solo per italiano e matematica, oppure partecipano ad attività pomeridiane di potenziamento. La scelta è affidata alle singole scuole.
Non c’è dubbio che abbiamo un problema di inclusione degli alunni stranieri nella nostra scuola. Perché i dati ci dicono che la dispersione scolastica è maggiore che tra gli italiani, le competenze degli alunni stranieri sono più basse soprattutto per l’italiano. Ma la soluzione data è troppo semplicistica in rapporto alla complessità della situazione.
Le nostre scuole sono ormai da tempo multiculturali. Abbiamo bisogno di azioni di sistema a livello nazionale, perché il problema dell’inclusione degli alunni stranieri è parte di un fenomeno più ampio di povertà educativa minorile, che per essere sconfitta non può partire da classi differenziali ma deve centrarsi sui ragazzi e sulla comunità educante, cioè tutto ciò che è intorno a loro, certamente la scuola, ma anche la famiglia, i loro pari, il terzo settore, i mediatori culturali.
Se vogliamo veramente risolvere il problema non dobbiamo cercare scorciatoie che ci tirano indietro, ma potenziare la presenza di insegnanti specializzati, di mediatori culturali che sappiano costruire percorsi personalizzati e adatti alla situazione specifica. Dobbiamo mettere fondi su questo e non toglierli. E garantire che i programmi si mantengano nel tempo e non siano drasticamente interrotti perché privati dei fondi necessari.
D’altro canto le situazioni vanno differenziate anche in base all’età dei ragazzi. Molti insegnanti della scuola primaria sottolineano che una cosa sono bambini piccoli, altra i ragazzi che si inseriscono nelle scuole secondarie non conoscendo la lingua.
I bambini imparano in fretta, e soprattutto imparano dai loro coetanei, immergendosi nella quotidianità, con loro condividendola. Non separandosi. La separazione può rallentare i loro processi di apprendimento, non accelerarli. La diversità dei bambini nelle classi arricchisce la loro esperienza e li abitua all’inserimento in un mondo in cui le differenze sono diventate strutturali.
Non servono mondi separati culturalmente, serve il dialogo, il confronto, che proprio tra diversi è più ricco e stimolante e abitua fin da piccoli a riconoscere la normalità della diversità.
Se si è in età da scuole superiori ciò è ancora valido ma deve entrare in gioco ancora di più la comunità educante di cui il ministro non parla. Ma allora bisogna investirci, operare con mediatori culturali e non svuotare con un colpo di spugna ciò che in tanti territori è stato avviato anche con risultati di eccezione.
Costruire una scuola inclusiva significa agire per costruire intorno ai ragazzi con qualsiasi tipo di difficoltà una comunità educante proattiva. Prima di avviare una linea come quella espressa dal ministro, è necessario confrontarsi con le esperienze di tanti insegnanti che quotidianamente si trovano ad affrontare tali problemi e spesso trovano soluzioni innovative e creative che possono essere messe a sistema. Di un grande bagno di democrazia abbiamo bisogno, facendo tesoro delle esperienze sui territori.