di Francesca Capelli, Alganews, 12.5.2018
– Le lezioni tenute in inglese non decollano nei licei. I docenti sono pochi e non formati e alla fine oltre metà degli studenti – il 53 per cento, per la precisione – arrivano alla maturità senza aver svolto questa esperienza. Che in termini tecnici si chiama Clil (Content and Language Integrated Learning) ed è stato introdotta per la prima volta dalla riforma Gelmini nel 2010 e poi ripresa dalla Buona Scuola. Si tratta dell’insegnamento obbligatorio di una disciplina non linguistica (per esempio, scienze o filosofia) in una lingua straniera, che di solito è l’inglese. A partire dalla quinta, nei licei e negli istituti tecnici, ma con l’eccezione del liceo linguistico, dove si dovrebbe iniziare già in terza con ben due lingue straniere.
Il problema è la preparazione di insegnanti e studenti. I primi, dovrebbero avere un livello di inglese C1 (quello di un Proficiency, per capirci); i ragazzi almeno un B1, quello richiesto dalle università agli studenti stranieri per accettarne l’iscrizione.
Condizioni che fotografano la realtà della scuola italiana? Per nulla. Secondo un sondaggio del portale per studenti Skuola.net, il 53 per cento dei ragazzi arrivano alla maturità senza aver effettuato la Clil, che quindi non può essere materia d’esame, malgrado la legge lo preveda.
Il punto è che la maggior parte dei docenti non sono in grado di insegnare la loro materia in una lingua straniera. “Magari conoscono l’inglese discretamente, soprattutto i più giovani” dice Alessandro Perduca, docente di inglese al liceo statale S. Quasimodo di Magenta (Milano). “Ma… ‘sapere’ per fare cosa? Per conversare o per insegnare la storia del ‘900? E con quale metodologia? Quella della storiografia italiana o anglosassone?”
I corsi di formazione per insegnanti offerti dal ministero sono insufficienti. “Attualmente” dice Perduca “possono frequentarli gli insegnanti con un livello B2 e C1, che però viene autocertificato dai diretti interessati, senza un reale controllo sul livello di conoscenza”. Così se le capacità linguistiche dello stesso insegnante sono carenti, si rischia di banalizzare i contenuti, per mancanza di strumenti idonei a trasmetterli. Verranno fuori lezioni ingessate, molto rigide, con poco o nessuno spazio per l’interazione, basate sugli immancabili Power Point ai quali aggrapparsi come a una boa di salvataggio.
L’obiettivo del Clil è duplice. Da una parte l’applicazione, nella didattica delle lingue straniere, del motodo comunicativo in action, dove la lingua straniera viene usata per trasmettere contenuti forti, leggere testi autentici, risolvere problemi reali.
Dall’altra, offrire un assaggio di ciò che gli studenti vedranno all’università o in un master, con frenesia anticipatoria che fa sì che ogni grado dell’istruzione sia obbligato a mostrare qualcosa di ciò che è previsto nel successivo. “Ma un master o un seminario” dice Perduca “sono situazioni concrete di apprendimento, con esigenze specifiche che la scuola non ha. Difficilmente si possono simulare in un’aula di liceo”.
Secondo Alessandro Bozzato – psicopedagogista e terapista Clidd (clinica della dislessia e della disgrafia) dell’Istituto Itard e membro della British Dyslexia Association – “è in atto una tendenza a moltiplicare le materie, livelli prestazionali, competenze. È uno dei motivi per cui emergono in questi anni tanti casi di dislessia, disgrafia e discalculia”.
Li fa emergere o li provoca? “Entrambe le cose” risponde Bozzato. “La difficoltà di un bambino dislessico ha a che fare con le sequenze: di lettere, parole, numeri… Il dislessico ha bisogno di più tempo per sviluppare gli automatismi alla base di lettura e scrittura. Allora, è facile capire perché una scuola che procede molto velocemente metta in maggiore difficoltà questo bambino”. Non solo. “A maggiore velocità, vengono anche chieste più competenze, varietà di materie, molteplici codici che necessitano, a loro volta, di ulteriori automatismi” continua Bozzato. “Così può succedere che un dislessico lieve che, con una richiesta di prestazioni inferiori non avrebbe avuto grossi problemi a collocarsi nella media scolastica, diventa improvvisamente un ‘Dsa certificato’ (Disturbo specifico dell’apprendimento), perché incespica e resta indietro. Questo significa impiegare il doppio dell’energia per restare al passo con gli altri, con possibile caduta di motivazione e dell’autostima”. Condizione che a può portare a un ulteriore rallentamento della carriera scolastica, indipendentemente della reali capacità.
Insomma, si apre un nuovo scenario. Una “zona grigia”, un numero crescente di ragazzi che non sono dislessici, ma presentano gli stessi tipi di disturbi: inversioni nella lettura, lentezza, specularità, difficoltà nell’andare a capo. “Si tratta il più delle volte di bambini che hanno poca esperienza di motoria” osserva Bozzato. “Non si sanno allacciare le scarpe, non si abbottonano, sono impacciati nel camminare e si stancano facilmente”. Capita così che il confronto con una scuola che non ha il tempo di concedere un periodo ragionevole per lo sviluppo e l’acquisizione di automatismi essenziali al passaggio successivo, comporti la creazione di Dsa.
Il Clil, insomma, come esito finale di quella moltiplicazione delle competenze che inizia già alla primaria, basata sull’idea folle e antiscientifica che il bambino sia una tabula rasa su si possan scrivere qualsiasi cosa. “Lo stesso inserimento dell’inglese alla primaria è una misura i cui risultati vanno pesati con attenzione”, conclude Bozzato. “Per un bambino dislessico, già la lettura di una lingua trasparente (che si legge come si scrive, tipo l’italiano) è un problema, figuriamoci con una lingua opaca come l’inglese. Ma questi problemi aumentano non solo per i bambini dislessici, ma anche per quelli che non hanno ancora acquisito gli automatismi necessari alla lettura. Basterebbe guardare a quello che succede alla maggioranza dei bambini bilingui, che imparano a parlare, leggere e scrivere nelle due lingue, ma lo fanno con tempi che, all’inizio, sono naturalmente più lenti”.
.
.
.
.
.
.