di Concita De Gregorio, la Repubblica, 18.1.2025.
Essere italiani senza conoscere il mondo nel tempo in cui viviamo nel mondo, mi chiedo, ministro: ma che idea è?
Io non lo so, se studiare latino alle medie, imparare a memoria A Silvia e leggere brani della Bibbia possa contribuire a formare cittadine e cittadini che, una volta adulti, conoscano il meccanismo della riproduzione animale e nel caso si accorgano che no, quello non è un persistentissimo gonfiore da allergia ai lieviti, sei incinta. Che non versino denaro a uno che ti scrive ciao sono Brad Pitt, quella strega di Angelina mi ha congelato i conti, aiutami. Che sappiano come si chiama il presidente della Repubblica, cos’è una Repubblica e se c’è il mare a Matera. Può darsi. È disarmante e spaventoso il livello di credulità e di ignoranza collettiva, ignoranza proterva e spesso violenta alimentata da una politica che ha indicato il sapere come privilegio delle élite dunque come un male, il sapere nemico del popolo. La democrazia del web, uno vale uno, ha aiutato: il discorso del premio Nobel per la medicina e il commento sprezzante dell’utente Arcadinoè sono nella stessa pagina, online. Dici tu e allora dico anch’io, siamo pari. Non c’è più molto da fare, con gli adulti. Ci si può riparare, uscire dai social, non guardare la tv, vivere come se il mondo fosse quello che vorremmo e nel nostro piccolo insistere ma non si può evitare che voti e dunque scelga da chi saremo governati anche chi pensa che gli haitiani rapiscano e mangino i gatti dei vicini, infatti ecco.
Quindi certo, l’unico antidoto alla tirannia del denaro e del consenso, dei like (dei voti) a chi ne ostenta, è la cultura. Sapere è potere, ci dicevano i nonni nel tempo in cui esistevano la classe operaia e le edicole, la classe operaia leggeva il giornale. La cultura attecchisce da piccoli. Con l’esempio, con la scuola. Perciò sì, vengo al progetto di riforma Valditara. (Pazienza se ogni ministro dell’Istruzione fa la sua riforma, è una vanità consueta, ci siamo abituati. Pazienza se non puoi sapere se i tuoi figli neonati andranno a scuola a cinque anni o a sette, se avranno i voti o gli smile o una frasetta motivazionale, se saranno trimestri pentamestri o schema libero, se ci saranno gli esami o una cartella punti. Pazienza. L’importante è che qualcosa imparino. Di conseguenza l’importante è che ci siano insegnanti competenti, motivati. La differenza la fanno sempre le persone, non i metodi. Scusate se divago). Riforma Valditara, si diceva.
Sono favorevole, chi legge qui sarà annoiato di sentirlo, a ogni forma di disciplina e di piccolo sacrificio precoce. Non credo che imparare le tabelline a memoria sia stressante, come protestano i genitori in chat. Gli stress sono altri e la vita si incaricherà di offrirne: se non hai pratica di fastidi sei rovinato. È molto utile imparare a memoria: poesie, spartiti. Saper leggere parole scritte e musica. Stare a tempo in un coro e in un’orchestra, cioè ascoltare il tempo degli altri e rispettarlo. Persino, vado oltre, sarebbe utile tornare a scrivere a mano. Non in stampatello, proprio in corsivo. Attiva aree del cervello che altrimenti si estinguono, che già ne usiamo tutti pochissimo. Il latino, dipende da come lo insegni, può essere divertente. Il greco anche di più, ma non voglio esagerare. Capire l’origine delle parole e dedurne il significato sarà difatti molto utile, quando parli, a capire cosa dici e soprattutto cosa ti stanno dicendo. Anche la Bibbia è un abbecedario di favole archetipiche, come testo letterario. Se non ne fai una questione di tradizione religiosa, intendo, né di bestseller, come ho letto: bisogna conoscerla “perché è il libro più venduto del mondo”. Sì. Il secondo sono le massime di Mao Tse Tung il terzo Harry Potter, nella top ten c’è anche Twilight. Non ne farei una questione quantitativa, inseguire la domanda non è mai un buon criterio formativo specie in tremenda carestia di saperi. Meglio suscitarne una nuova attraverso un’offerta multiforme. Il punto della riforma che mi lascia veramente perplessa, però, è quello sull’identità, sull’italianità. Noi italiani. (Mi ha tanto colpita la conclusione del professor Ernesto Galli della Loggia, coordinatore di uno dei gruppi di lavoro che il ministro ha chiamato a sé per elaborare la riforma. Invita, il professore, a “pensare a quello che si sta per dire”. Che esortazione interessante. Che punto di vista insolito. Come si potrebbe diffonderlo tra le moltitudini? Nel timore di commettere il delitto di vuoto di pensiero mi atterrò alla mia esperienza personale. Solo aneddoti privati, a rigor di cronaca indiscutibili, sull’italianità).
Nell’anno in cui sono nata vigeva ancora il regio decreto del luglio 1939, anno diciassettesimo dell’Era Fascista. Sarebbe stato abrogato poco dopo. Non si potevano, allora, imporre ai bambini italiani nomi stranieri se non nella trascrizione fonetica. Perciò al nome di mia nonna fu tolta l’acca. Il risultato è un nome inesistente: non italiano, non spagnolo. La mia prima esperienza di italianità è stata portare un nome inventato, apolide, privo di radici storiche e biografiche. Un esordio formativo. Più avanti ho studiato sui sussidiari in uso al tempo. Ho creduto che Goffredo di Buglione fosse italiano ma no, era belga. Nei libri delle vacanze estive, erano gli anni di Franco, ho imparato che Roger de Làuria, nome a me caro per via dell’indirizzo di casa di mia nonna, fosse spagnolo ma no, era nato in Basilicata. Da adulta ho capito che il patrono di Bari, san Nicola, era turco. Da un memorabile spettacolo teatrale di Amedeo Fago, Pouilles le ceneri di Taranto, ho imparato che seguendo la linea matrilineare, quella cancellata nei registri e nei cognomi, siamo tutti di origine straniera e siamo tutti, al mondo, parenti. Mi pareva esagerato, ho indagato. Ci sono studi e studi. È vero. Mia zia Luciana, sorella di nonna, è emigrata in America a vent’anni con la nave e a novanta ancora non parlava bene quella lingua proprio come la madre egiziana del ragazzo morto a Torino, Ramy nato in Italia, non parla bene la nostra. I miei biscugini sono americani, uno è eletto al Congresso. Alcuni dei miei figli vivono fuori dall’Italia. Da quando erano piccoli conoscono la storia del mondo — la cultura, le lingue, i codici — assai meglio di me. Uno di loro, vive agli antipodi, l’altro giorno mi ha chiesto se non si potrebbe introdurre una patente di idoneità al voto, un meccanismo per cui se vuoi esercitare il tuo diritto devi rispondere allo stesso questionario a cui rispondono gli stranieri per avere la cittadinanza. Sai: dimostrare conoscere alcune nozioni elementari del paese in cui vivi. Anche chi è nato in Italia dovrebbe, esserci nati non basta. Mi è venuta in mente la benefattrice di Brad Pitt, la partoriente inconsapevole, Arcadinoè che dice a Giorgio Parisi sei un buffone. Gli ho detto no, come ti viene in mente. Non sarebbe democratico. Fine degli aneddoti.
Ma essere italiani senza conoscere il mondo nel tempo in cui viviamo nel mondo, mi chiedo, ministro. Nel tempo il cui il mondo è il teatro. Non le sembra asfittico, claustrofobico? Li conosce li sente i ragazzi a cui dovrebbe dare indicazioni di studio, ministro? Ma che idea è?
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Scuola, non si insegna a essere italiani ultima modifica: 2025-01-19T06:48:20+01:00 da