di Maria Di Benedetto, Studio Rando Gurrieri, 24.11.2019
– La scuola non è un servizio “on demand”, non è un’attività commerciale alla quale ci si può rivolgere spendendo la “dote scuola” che da più parti si sostiene debba essere spesa liberamente. Lo Stato, con le sue scuole, svolge una funzione costituzionale che non può essere messa sul mercato. È lo Stato che deve garantire a tutti l’istruzione e il raggiungimento del successo formativo. Il modello di riferimento deve essere una scuola statale laica, aperta, inclusiva, capace di funzionare come ascensore sociale. La concorrenza tra scuola pubblica, paritaria e privata, che secondo l’idea liberista produrrebbe qualità, è deleteria, divide e non unisce, omologa e non è innovativa. Inoltre la scuola paritaria, offrendo servizi a pagamento, produce discriminazione sociale in nome del profitto. Perseguendo questa strada, rischiamo un danno irreversibile. Peggiore di quello che sta attraversando la sanità, con ospedali senza personale e cliniche private a cui vengono indirizzati i fondi regionali.
Il confronto tra chi sostiene che le scuole paritarie siano un bene per la libertà di scelta da parte delle famiglie, e che lo Stato è autoritario nel momento in cui non le finanzia come invece accade per le scuole statali, è bene che ci sia. Ma deve essere supportato dai fatti. I difensori della scuola privata si appellano alla libertà educativa, che in realtà non è necessariamente garantita dalle istituzioni private. Nonostante, infatti, le scuole private debbano garantire lo stesso grado di istruzione fornito dallo Stato, sono frequenti i trasferimenti alla privata di studenti bocciati nella statale e che hanno alle spalle percorsi di studio non lineari, cosa che spiega il picco di iscritti alle paritarie nel quinto anno di superiori. Stando ai dati Istat la media dei voti finali degli studenti nelle paritarie è più alta di quelli delle statali alle elementari e alle medie, mentre alle superiori la situazione è ribaltata, perché le secondarie private accolgono, appunto, molti alunni con difficoltà, che vogliono evitare la bocciatura, il cui rendimento abbassa la media complessiva. I voti in pagella, però, non sempre sono indicatori affidabili: contano di più le competenze e i risultati raggiunti. Per l’Ocse – contrariamente a quanto avviene in molti altri Paesi, dove le migliori performance scolastiche negli istituti privati sono legate allo status socio-economico di provenienza – in Italia la performance di lettura degli studenti propende nettamente a favore della scuola pubblica, dove anche il clima disciplinare è migliore; tanto che l’abbandono degli studi prima del diploma è maggiore tra studenti della privata, forse anche per l’ultimatum imposto dai genitori, stanchi continuare a sborsare denaro per la retta se il rendimento del figlio non migliora.
Prima di pensare alla scuola di mercato e alla liberalizzazione delle risorse per l’istruzione, forse è il caso di pensare ai veri problemi della scuola italiana. Problemi che di certo non sono rappresentati dai simboli religiosi ma, ad esempio, il fatto che più del 60% degli edifici scolastici non è stato costruito con criteri antisismici. C’è solo l’imbarazzo della scelta: la carenza di organico del personale docente, il costo dei libri di testo, la messa in sicurezza delle aule o la creazione di una scuola davvero inclusiva per gli studenti disabili o con disturbi specifici dell’apprendimento. Poi ci sono le classi troppo affollate, gli stipendi dei docenti, gli asili nido da garantire ai cittadini, l’assunzione di maestri e docenti per la scuola primaria e secondaria. Se bastasse un crocifisso per risolvere tutte le questioni aperte, la scuola italiana sarebbe ai vertici delle classifiche mondiali. Ma non è così.
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