Sono pochi e molto richiesti: perché l’Italia non è un paese per maestri

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di Antonella De Gregorio ,  Il Corriere della Sera  1.10.2015.  

Sono donne il 96% degli insegnanti. Ruolo sociale e stipendi bassi:
così gli uomini hanno lasciato le cattedre. Con conseguenze sull’educazione dei ragazzi  

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C’è chi parla di vocazione; chi dice di essere «nato sotto un banco», ispirato dall’esempio materno; chi racconta di esperienze con la diversità e con l’infanzia, che hanno segnato il proprio percorso formativo. Raramente quella dei maestri è una carriera banale, scelta per caso. I fatti autobiografici spiegano perché, oltre che molto ricercati, arrivino ad essere tanto apprezzati da alunni, colleghi, genitori. Mosche bianche di una professione poco abitata dagli uomini, hanno quasi tutti l’abitudine a interrogarsi a fondo sui motivi della loro scelta, cui tante giovani donne approdano perpetuando consuetudini del femminile. Perché l’insegnamento è visto essenzialmente nella sua componente di «cura» che lo stereotipo di genere associa alla donna. Uno stereotipo da smontare, anche perché rischia di produrre danni sull’educazione di ragazzi e ragazze e sul loro percorso di crescita. Un argomento che sarà lo spunto per una conversazione in Triennale a Milano – domenica pomeriggio alle 16 – dal titolo «Lui, lei, noi. Viaggio in contromano nei luoghi comuni». Alla scuola si chiede di preparare alla società della conoscenza, della pluralità, al mondo. E il mondo è fatto di uomini e donne e di questo avrebbero bisogno i bambini: uno sguardo complesso e condiviso sulla realtà.

Mosche bianche

Ma i Mario Lodi e i Don Milani della scuola italiana sono una specie tanto rara da rischiare l’estinzione: meno del 4% degli insegnanti della primaria sono maschi, 8.193 su 224.124. A quella dell’infanzia, addirittura lo 0,7%: 590 mosche bianche. È così per tutti i livelli della scuola, che mediamente è in «rosa» per l’80%, anche se la presenza di donne diminuisce con il crescere del livello scolastico e del prestigio sociale connesso: le professoresse alle superiori sono il 65%. All’estero la femminilizzazione è un po’ meno accentuata: si va dal 63% della Spagna al 74% degli Stati Uniti. Nella scuola primaria, in Francia le maestre sono l’82%, nel Regno Unito l’81%, in Finlandia il 78%, in Spagna il 75%. Il nostro, insomma, meno degli altri, è un Paese per maestri. A tenere molti uomini lontani dalle aule pesa la componente economica che spesso si accompagna alla visibilità sociale e ai meccanismi di carriera e potere, nell’educazione e nel sociale praticamente inesistenti.

Stipendi magri

«È difficile mantenere una famiglia se è uno stipendio unico che entra in casa», dicono all’unanimità, maestre e maestri. Uno stipendio che è tra i più bassi della Ue e dell’Ocse: si parte da 1.200 euro al mese e si arriva a 1.700 (1.900 alle superiori), all’apice della carriera, di solito dopo 35-40 anni di servizio. Per trovare retribuzioni più alte basta guardare a Lussemburgo, Danimarca, Austria. O in Germania, Spagna, Portogallo e Turchia, dove sono addirittura al di sopra del Pil pro capite.

Il lavoro che c’è

«Il fenomeno della femminilizzazione della scuola è complesso – sostiene la pedagogista Susanna Mantovani –. Può esser fatto risalire a quando, dopo l’unità d’Italia, i Comuni pagavano i maestri per attirarli a insegnare nelle loro scuole e preferivano le donne perché venivano pagate di meno». Ma Mantovani vede anche che la scuola si sta rinnovando, che c’è «una nuova generazione più consapevole, più giovane». Ancora quasi tutte donne, è vero, «ma qualche ragazzo inizia a capire che i posti di lavoro per chi esce da facoltà come Scienze della Formazione, ci sono, il tasso di occupazione in questo momento è alto», dice.
«Un mercato del lavoro che funziona al contrario: sono più le richieste delle risposte – conferma Barbara Mapelli, esperta di Pedagogia delle Differenze di genere -. Ed è solo il primo paradosso. Poi c’è l’aspetto della scelta: le studentesse hanno sorpassato i maschi nelle aule universitarie e però continuano a prediligere canali più umanistici mentre i maschi si orientano (ancora) verso indirizzi più tecnico-scientifici. E infine si avverte un cambiamento negli uomini, che esprimono il desiderio di vivere in modo diverso le forme dell’affettività e dell’intimità, quella sfera del prendersi cura che ancora le norme di genere precludono loro e che non si traduce in un accesso alle professioni correlate».

In famiglia

«Certo, per i bambini sarebbe un vantaggio avere la più ampia varietà possibile di insegnanti, di età, genere, etnia – sostiene Elisabetta Camussi, docente di Psicologia Sociale – perché anche la scuola fosse il più possibile simile all’esperienza del mondo». Ma non è facile. «E comunque sposterei l’attenzione su quello che accade in famiglia – dice Mantovani: per un’educazione non sbilanciata, è importante che il bambino abbia un rapporto molto stretto e intimo con il papà. Avere due persone diverse vicine già dai primi mesi di vita arricchisce la sua crescita. La presenza solo femminile pone questioni «rispetto al tema del role modelling e ai processi di identificazione», dice Camussi. L’estinzione del maestro «si manifesterà nella difficoltà a costruire modelli di genere soprattutto per i piccoli maschi e i giovani maschi e in seguito nelle relazioni fra i due generi sostiene Mapelli.

Intercambiabili nella cura

Ma ciò che accade a scuola è solo una parte di un più ampio processo di socializzazione. Duccio Demetrio, Filosofo dell’educazione, sosteneva già qualche anno fa l’importanza di non riprodurre stereotipi e di prevedere percorsi formativi «che instaurino intercambiabilità». Nei mestieri di cura in senso lato, diceva, «occorrono sia competenze tradizionalmente identificate come femminili – accoglienza, ascolto, sostegno, relazione – sia maschili: capacità di porre regole, autoritarietà, fisicità, stimolo alla competizione e trasmissione di idealità ai giovani». Vanno insegnate ai futuri maestri, scindendole dalla loro appartenenza a un genere o all’altro.

Segregazione al contrario

«Ma intanto bisognerebbe anche rimuovere da asili nido e scuole dell’infanzia quella discriminazione di genere, che c’è, ma mai veramente esplicitata – sostieneFabio Arras, pedagogista – che restituisce all’uomo un’immagine di incapacità, come se le colleghe donne si percepissero naturalmente più capaci, negando agli uomini competenze professionali».

Le responsabilità dell’orientamento

Da dove partire? Servirebbero interventi nelle scuole superiori di giovani universitari che parlino delle loro scelte, di quei lavori che sanno affrontare con competenze di cura al maschile. «Un orientamento ancora potenziale, che dovrebbe essere preso in considerazione da politici, scuole e consulenti. Di pari passo con la promozione di un più elevato numero di donne negli organi decisionali nel campo dell’istruzione», si legge in un recente rapporto dell’agenzia europea Eurydice, dal titolo «Differenze di genere nei risultati educativi». Solo in metà dei Paesi europei è disponibile un orientamento sensibile al genere, dicono i ricercatori, ma spesso punta a spezzare i modelli tradizionali e aiutare le ragazze a scegliere professioni e percorsi educativi tecnologici e scientifici. Conclude il Rapporto: «È un punto di debolezza delle misure attuali: l’attenzione preponderante sulle ragazze. Ma i ruoli di genere possono essere combattuti efficacemente solo quando il cambiamento va in entrambe le direzioni».

Sono pochi e molto richiesti: perché l’Italia non è un paese per maestri ultima modifica: 2015-10-01T20:34:51+02:00 da
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