Sulla “riforma” degli istituti tecnici e professionali

Gilda Venezia

di Marco Cerase, dal profilo FB La nostra scuola, 13.8.2024.

Gilda Venezia

Vorrei portare un punto di vista diverso sulla quadriennalizzazione dei tecnici. Ho frequentato l’istituto tecnico nella seconda metà degli anni ’80. Per come funzionava allora non c’erano grosse differenze con un liceo scientifico a livello di preparazione nelle discipline di base, mentre le materie “di indirizzo” servivano più che altro a creare un substrato di mentalità tecnica sul quale, in seguito, innestare la formazione professionale in azienda: in ogni caso non si trattava di insegnamenti direttamente professionalizzanti.

La composizione sociale delle classi era piuttosto eterogenea: non essendo stato ancora esteso l’obbligo scolastico ai 16 anni, c’era una esigua minoranza di persone che si iscrivevano a scuola senza motivazione allo studio; una certa percentuale, pari circa a quella attuale dei licei, si “perdeva per strada”, mentre quel 75/80% di alunni che arrivava fino in fondo avrebbe speso il titolo sul mercato del lavoro (la grande maggioranza) o per l’accesso all’università (una piccola ma significativa minoranza).

Insomma, non voglio dire che fossero il paradiso, ma a suo tempo gli istituti tecnici, tutto sommato, funzionavano, o almeno funzionavano palesemente meglio di adesso. I motivi di questa differenza sono diversi: i tecnici con la riforma Gelmini hanno subito un innegabile ridimensionamento di risorse e, con esso, una significativa perdita di efficacia e di prestigio sociale che li ha resi appetibili per un’utenza sempre meno motivata allo studio.

In secondo luogo la riforma dei tecnici si innesta in una serie di riforme scolastiche che ha costantemente mirato al bersaglio sbagliato, cioè quello di assecondare il mercato del lavoro sempre meno qualificato nel fornire competenze direttamente spendibili, quasi in senso di formazione professionale, anziché quello della coltivazione di menti libere e critiche, che potevano dare il proprio apporto consapevole anche nelle professioni tecniche.

In terzo luogo una serie di enormi mutamenti politici e sociali e la miopia generalizzata che ne è conseguita nel nostro paese ha di fatto enormemente frammentato, quasi desertificato, il mondo dell’impresa italiana, specie quello legato all’innovazione tecnologica, privilegiando invece una concezione predatoria d’impresa legata alla rendita di posizione e non alla costruzione di valore. Già nel ’92 Amato, nel suo discorso di insediamento, ammoniva inascoltato che “L’Italia non deve diventare la Disneyland d’Europa”: al contrario oggi consideriamo il turismo, e non la produzione di beni e servizi ad alto valore aggiunto, la principale risorsa del paese.

La quadriennalizzazione dei tecnici e il loro affiancamento agli ITS e alla malintesa logica d’impresa da essi incarnata prosegue nell’errore che vede il problema dell’attuale scuola italiana nel “mismatch” tra gli apprendimenti scolastici e le esigenze delle imprese e che, pertanto, punta a una sempre maggiore professionalizzazione degli insegnamenti tecnici e professionali e a un loro sempre maggiore distacco da quel corpo di insegnamenti non direttamente spendibili sul mercato del lavoro e finora comuni a tutta l’istruzione secondaria. È un’azione demolitoria dell’istruzione secondaria lenta, ma costante, che non ha prodotto e non produrrà benefici: né in termini di rilancio dell’istruzione tecnica e professionale né, tanto meno, in termini di vantaggi per le imprese in grado di fare innovazione che, al contrario, avrebbero bisogno di personale qualificato, creativo e consapevole per far fronte alle sfide dell’economia globale molto più che della precarizzazione e la taylorizzazione dei lavoratori.

 

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Sulla “riforma” degli istituti tecnici e professionali ultima modifica: 2024-08-13T11:14:10+02:00 da
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