di Giuseppe Mammana, Il Fatto Quotidiano, 2.12.2021.
In questi giorni, migliaia di studenti si trovano ad affrontare la terza e ultima prova del tirocinio formativo attivo (TFA), il corso di specializzazione per formare insegnanti di sostegno che operano con i ragazzi con disabilità nelle scuole di ogni ordine e grado. Il Ministero, per il triennio 2021-24, con l’approvazione di un decreto, ha autorizzato le università che abbiano presentato la “propria offerta formativa potenziale” ad attivare i percorsi di specializzazione per la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria (primo e secondo grado).
L’iscrizione al corso, a numero chiuso, è subordinata al superamento di tre prove: una preselettiva, una scritta ed una orale. I candidati “idonei”, al termine delle prove, accederanno ad un corso universitario della durata di un anno per il conseguimento di 60 cfu comprendenti materie di psicologia, pedagogia e legislazione; laboratori; 300 ore di tirocinio diretto (da espletare all’interno di un’istituzione scolastica) e indiretto (attività di supervisione da parte dei docenti del corso presso le sedi del tirocinio). L’anno di corso universitario è propedeutico all’accesso alle GPS (graduatorie provinciali per le supplenze) di prima fascia, che permette una chiamata “sicura” per l’insegnamento del sostegno nelle scuole.
“Fino a qui tutto bene” ma è da qui che iniziano i veri problemi: la prima anomalia è legata all’esiguità dei posti messi a bando nelle università pubbliche. Ad esempio, nel territorio romano le università private mettono a bando per la secondaria di secondo grado dai 250 ai 350 posti. Mentre le uniche due università pubbliche, Tor Vergata e Roma 3, per lo stesso grado di studio rispettivamente 100 e 90 posti. Questa decisione incoraggia gli studenti a sostenere le prove nelle università private. In secondo luogo, i costi “diretti” ed “indiretti” che uno studente deve “pagare” per sperare di lavorare come insegnante di sostegno.
Nei costi “indiretti” includiamo i prezzi esorbitanti dei corsi di formazione preparatori per le prove di accesso organizzate da università o enti privati: i costi si aggirano tra i 300 e i 500 euro e comprendono dispense riassuntive sui contenuti dell’esame, panieri di domande, video lezioni e simulazioni scritte. Alcune università organizzano il corso “internamente” altre lo appaltano all’esterno: le prime, non si limitano solo alla costruzione del questionario ma organizzano corsi “garantendo” allo studente che le domande verranno estrapolate dai test contenuti nel manuale di preparazione. Altre, lo appaltano all’esterno, tuttavia il meccanismo dell’appalto è quello più “appetibile”.
Nell’intervista emerge un sistema in cui ogni attore (Miur, università, agenzie private) appare coinvolto nel processo ma non ha colpe: creando un rimpallo di responsabilità, dove tutti hanno un “ruolo” ma nessuno è “colpevole”.
L’altra anomalia del meccanismo del Tfa riguarda l’omogeneità della prova e le differenti soglie di punteggio tra un’università ed un’altra: in alcuni plessi universitari la prova prevedeva solo comprensioni del testo e non domande di grammatica. In altre il contrario. Insomma prove “discrezionali” a seconda dell’università con gradi di complessità differenti. Analogo discorso per le soglie minime di accesso: in alcune università per passare la prima prova bastava 13,5, in altre 19,00 e in altre ancora 21,5. Tuttavia alcuni corsisti hanno fatto ricorso al Tar e il tribunale ha stabilito illegittima la decisione delle università di escludere i candidati con punteggio pari o superiore a 18. E dichiara illegittima la decisione di prevedere un numero di ammessi pari al doppio dei posti disponibili senza indicare una soglia minima per il superamento del test.
Da non trascurare sono i costi “diretti” di cui si devono fare carico gli studenti: il bollettino per sostenere la prova preselettiva si aggira tra i 120 e i 150 euro. E, infine, il pagamento di circa 3,000 euro (dopo il superamento delle tre prove) che il corsista deve versare per frequentare il corso universitario. “Pagare per lavorare”: questo è il mantra che accompagna i giovani durante tutto l’arco della loro vita. Un “lifelong learning” classista che riproduce le diseguaglianze.
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