Un regionalismo degenerato a cui è ora di dire basta

di Francesco Pallante, Professione Docente, Numero I, anno XXXI,  gennaio 2021.

Spinto al limite del federalismo, il regionalismo ha peggiorato lo Stato senza migliorare le regioni. E, attraverso l’intreccio delle competenze, ha complicato e indebolito il sistema costituzionale oltre ogni ragionevolezza.

Gilda Venezia

Uno Stato debolissimo. Un Presidente della Repubblica inascoltato. Un governo intimidito. Un Parlamento inconsistente. Venti Regioni contro, a prescindere. Tra le vittime del Covid, impossibile non annoverare l’insieme delle istituzioni costituzionali.

La tragicommedia che ha accompagnato l’approvazione del DPCM del 3 novembre 2020– l’ennesimo nel volgere di pochissimi giorni, ma in effetti il primo che ha preso finalmente atto della seconda ondata della pandemia – ha reso ineludibile interrogarsi sulla natura degenerata del regionalismo italiano. Difficile immaginare una situazione peggiore. Uno scenario lose-lose, in cui, in piena tempesta pandemica, a perdere in credibilità e capacità d’azione sono contestualmente tutti gli attori in campo: persino la Presidenza della Repubblica, inusualmente coinvolta nel vano tentativo di mitigare le bizze regionali e costretta a tornare, due volte nel volgere di pochi giorni (prima con le regioni, poi con i comuni), ad appellarsi al senso di responsabilità che dovrebbe essere proprio di tutte le istituzioni.

Non c’è dubbio che il momento sia delicatissimo: la pandemia è di nuovo galoppante, la ripresa economica compromessa, la crisi sociale in atto. Persino la tenuta psicologica dei cittadini è considerata a rischio. È in momenti come questi che la saldezza delle istituzioni si rivela una risorsa decisiva. Una risorsa sulla quale, tuttavia, in questo momento l’Italia non può far conto. E non soltanto per il ridicolo balletto che ha portato le regioni prima a rivendicare autonomia decisionale, poi a pretendere l’intervento dello Stato, quindi a lamentarsi delle misure adottate. Il problema è che tanta irresponsabilità politica non ha trovato argine nel governo, debole al punto da prestarsi ai giochetti – persino alle provocazioni – dei presidenti regionali. Che cosa, se non la propria debolezza (istituzionale, ancor prima che politica), ha sinora impedito all’esecutivo statale di mettere in riga le regioni ricorrendo ai poteri sostitutivi che gli sono attribuiti dall’articolo 120, secondo comma, della Costituzione? La norma è chiarissima – «il governo può sostituirsi a organi delle regioni … nel caso di … pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiede la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» –, così come chiarissimo è il pericolo derivante dall’emergenza sanitaria in atto. E, invece, la soluzione è stata costruire una griglia di parametri, alimentati da dati di provenienza regionale, attraverso cui misurare «oggettivamente»– non sia mai che qualcuno possa pensare che il governo intenda assumersi la responsabilità della scelta – la gravità della situazione in ciascuna regione. Insomma: la situazione sanitaria nelle regioni sarà considerata più o meno grave in base ai dati forniti dalle regioni stesse. Un caso da manuale di cattiva regolazione, in cui il controllato è il controllore di se stesso. Per quanto strabiliante, è un fatto che le regioni possano oggi far affidamento su un surplus di credibilità istituzionale di fronte al quale lo Stato è in soggezione. Lo dimostra, emblematicamente, la circostanza che siano riuscite a imporre un regionalismo a senso unico, che opera solo quando va a loro vantaggio. Così come la grande industria ha, in passato, piegato lo Stato al gioco della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite, allo stesso modo oggi le regioni piegano lo Stato al gioco della regionalizzazione degli onori e della statalizzazione degli oneri. E ciò, nonostante i tanti fallimenti nella gestione dell’unico vero compito cui devono assolvere: il governo del sistema sanitario. L’impreparazione con cui le regioni si sono fatte sorprendere dalla seconda ondata è imperdonabile. Come se il dramma di primavera si fosse svolto su un altro pianeta, le criticità di oggi sono le stesse di allora: difficoltà nell’effettuare e processare i tamponi, sistema di tracciamento saltato, assistenza territoriale deficitaria al limite della carenza, Rsa infettate, decimazione degli anziani. Nemmeno la campagna di vaccinazione antinfluenzale sono state capaci di organizzare. Ancor prima, imperdonabile è l’aver attivamente contribuito – Lombardia in testa – a ridurre la sanità a un mero problema di costi, subordinando la tutela del più fondamentale dei diritti costituzionali a una logica aziendalista incapace di prendersi realmente cura delle fragilità derivanti dalle malattie.

Altrettanto stupefacente è l’attrazione in ambito regionale delle delicatissime questioni inerenti all’apertura o alla chiusura delle scuole durante la pandemia. Non si ripeterà mai troppe volte che l’istruzione, pubblica e uguale per tutti, è il fondamento stesso della cittadinanza. Con buona pace di coloro che, da destra e da sinistra, hanno governato negli ultimi decenni, compito della scuola non è produrre lavoratori ben disciplinati, ma formare cittadini pensanti. Pensanti e dunque realmente capaci, perché liberi dall’ignoranza, di occuparsi, oltre che delle loro cose private, della cosa pubblica: e, per questa via, di essere attivi protagonisti della vita collettiva, non passivi strumenti a disposizione del demagogo di turno. Ebbene, come sia possibile conciliare questa vera e propria esigenza costituzionale con la rimessione del potere decisionale sull’apertura delle scuole alle singole regioni è davvero incomprensibile. Naturalmente, potrebbe aver senso differenziare le decisioni a seconda dell’andamento della pandemia nei diversi territori: a condizione, però, che sia, anzitutto, predefinito un criterio univoco attraverso cui prendere le decisioni, in modo tale che queste siano sempre e comunque assunte nell’interesse delle persone che, nei diversi ruoli, vivono e fanno vivere la scuola. Agire diversamente, rimettendosi, come di fatto avviene oggi, alle valutazioni soggettive dei singoli esecutivi regionali, significa esporre le esigenze della scuola al rischio di venire assoggettate a logiche altrimenti motivate, se non alle pressioni di gruppi di interesse per i quali l’istruzione è tutt’altro che una priorità. Sono almeno dieci, al momento, le regioni italiane intervenute con misure restrittive: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia. Naturalmente – a detta dei presidenti delle regioni in parola – a giustificarle è stato l’intento di muovere a protezione degli studenti e del mondo della scuola. Ammettiamo che sia così. Ma perché, allora, nulla è stato fatto preventivamente, durante l’estate, quando settimane cruciali sono state sprecate senza preoccuparsi di adeguare il trasporto pubblico locale alla necessità di contenere una pandemia che tutti sapevano avrebbe ripreso vigore con l’autunno?

Per anni abbiamo voluto credere che il rafforzamento delle regioni a discapito dello Stato avrebbe avuto la virtuosa conseguenza di avvicinare le istituzioni ai cittadini. Le avrebbe rese più attente ai loro bisogni e più controllabili. Avrebbe innescato una competizione virtuosa, da cui sarebbe scaturita l’efficienza che da sempre manca alle istituzioni statali. Anche quando la realtà diceva il contrario, abbiamo voltato la testa dall’altra parte. Abbiamo rifiutato di riconoscere che il regionalismo si basava – e si basa – su una competizione tra diseguali, a tutto vantaggio dei più forti, e abbiamo rapidamente dimenticato le (frequenti) occasioni in cui la vicinanza ai cittadini si è tradotta, com’era prevedibile, in permeabilità alle pratiche della peggiore mala politica, sino alla certificata corruzione dei vertici di alcune delle più importanti regioni italiane. Come se niente fosse, e come già accaduto con la riforma del Titolo V nel 2001, il Pd si è lanciato all’inseguimento della destra, facendosi fautore del pericoloso progetto dell’autonomia differenziata, volto a ulteriormente rafforzare il regionalismo e a legittimare la falsa e perniciosa retorica del residuo fiscale. Incredibile che il progetto sia ancora sul tavolo del ministro per gli Affari regionali e che nemmeno la pandemia abbia indotto a metterlo da parte.

È ora di dire basta. Spinto al limite del federalismo, il regionalismo ha peggiorato lo Stato senza migliorare le regioni. E, attraverso l’intreccio delle competenze, ha complicato e indebolito il sistema costituzionale oltre ogni ragionevolezza. Invertire la rotta è diventato ineludibile.

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