Dottrina per il Lavoro, 23.12.2019
– Con ordinanza n. 32381 dell’11 dicembre 2019, la Corte di Cassazione ha affermato che il mobbing lavorativo è configurabile in presenza di due elementi:
- quello oggettivo, integrato da una serie di comportamenti del datore di lavoro;
. - quello soggettivo, integrato da un intendimento persecutorio che postula una serie di atti contro il lavoratore, in maniera sistematica e prolungata, posti in essere dal datore di lavoro, o da un suo preposto, o da altri dipendenti sottoposti al potere gerarchico dei primi due.
CORTE DI CASSAZIONE
Ordinanza 11 dicembre 2019, n. 32381
Cassiere terminalista – Presunto comportamento vessatorio dirigenti e colleghi – Malattia psicofisica – Richiesta risarcimento danni – Onere della prova
Rileva che
come si evince dallo storico di lite della sentenza qui impugnata, con ricorso al Tribunale di Siracusa in data 23 ottobre 2004 C.G., premesso di lavorare da oltre 25 anni presso la Banca di M.P.S. – Banca A.P.V. con la qualifica di vice capufficio e con le mansioni di cassiere terminalista, lamentava di essere stato da diverso tempo oggetto di un comportamento fortemente vessatorio da parte di dirigenti e di qualche collega della Banca, in particolare per essere stato scavalcato nella promozione a capoufficio da colleghi molto più giovani di età e con minore anzianità di servizio nonché con minore professionalità, nell’essere stato vittima di continui distacchi e/o brevi trasferimenti e missioni senza alcuna causa ragione o motivo di natura organizzativa, nell’avere subito vere aggressioni psicologiche consistite in inutili e futili contestazioni disciplinari, rimaste però inattuate. Tanto premesso, assumeva che detti comportamenti gli avevano procurato una malattia psicofisica concretizzatasi in ansia, insonnia e disturbi depressivi, per cui chiedeva la condanna della società convenuta al pagamento della somma di euro 60.000 a titolo di risarcimento dei danni fisici, psichici e morali subiti. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione della società convenuta, che resisteva alle pretese avversarie, il giudice adito, previo espletamento di prova testimoniale, con sentenza del 12 febbraio 2007 rigettava la domanda. Detta pronuncia veniva quindi appellata dal C. con ricorso del 3 maggio 2007, cui resisteva la Banca M.P.S. S.p.a. (che aveva incorporato la Banca A.), la quale proponeva, a sua volta, appello incidentale avverso la dichiarata compensazione delle spese relative al primo grado del giudizio;
la Corte di Appello di Catania con sentenza in data 20 novembre – 10 dicembre 2014 rigettava entrambe le anzidette impugnazioni, compensando altresì le relative spese; tale pronuncia è stata quindi impugnata dal C. mediante ricorso per cassazione notificato il 4 giugno 2015, affidato ad un solo articolato motivo, cui ha resistito la Banca M.P.S. S.p.A. mediante controricorso del 9-10 luglio 2015, in seguito illustrato da memoria;
Considerato che
il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’articolo 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell’articolo 33, n. 5, della legge n. 104 del 1992 e successive modifiche ed integrazioni, nonché degli articoli 2697, 2727 e 2087 c.c. e degli articoli 115 e 116 c.p.c.; al riguardo, il C. ha evidenziato che sin dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado aveva rappresentato di essere genitore di figlio affetto da sindrome di down, per cui aveva allegato opportuna documentazione. La circostanza era rimasta incontestata ed anzi pure riconosciuta nella memoria di costituzione in appello per la Banca M.P.S. In proposito il C. aveva lamentato il profluvio dimissioni e di trasferte, con le quali era stato aggredito dalla Banca datrice di lavoro soprattutto durante il periodo corrente dal dicembre 2001 sino a luglio 2002, a ridosso cioè della fusione per incorporazione della stessa banca con la Banca A.V..
Ad una prima lettura del succitato art. 33.5 la norma sembrava riferirsi solo al caso di veri e propri trasferimenti, ma in realtà secondo il ricorrente la stessa attribuiva al lavoratore fornitore di assistenza ad un parente affetto da handicap la facoltà di scelta nella sede più vicina al proprio domicilio, così che doveva ravvisarsi il diritto del lavoratore versante in questa situazione negativa a scegliere e quindi a mantenere una sede di lavoro più vicina, tale da consentirgli di esercitare senza deminutio da parte datoriale il ruolo assistenziale garantito dalla legge. Sosteneva, quindi, il ricorrente che nel diritto di scegliere una sede vicina al proprio domicilio è contenuto anche quello a mantenerla senza elisioni neanche temporanee e a non essere allontanato da essa neanche per brevi periodi in quanto luogo di lavoro più vicino al proprio domicilio. La ratio della norma, infatti, è quella di non allontanare dalla sede di lavoro più vicina al domicilio del familiare ammalato i genitori onerati dal delicato ruolo assistenziale tutelato dalla legge, non avendo perciò rilievo se l’allontanamento avvenga per periodi più o meno brevi, per distanze più o meno lunghe, poiché il diritto all’assistenza ex L. n. 104 viene comunque leso dall’allontanamento anche per periodi più o meno brevi e con riferimento a distanze più o meno ravvicinate. I maggiori tempi di percorrenza necessari per raggiungere il nuovo luogo di lavoro e per rientrare da esso riducono infatti il tempo libero dal lavoro da dedicare l’assistenza;
pertanto, ad avviso del ricorrente, la Corte di merito aveva violato l’anzidetto articolo 33 n. 5, laddove aveva affermato l’irrilevanza dei distacchi di breve durata in un arco temporale limitato di sei mesi ed in località vicine;
parimenti, aveva errato la Corte distrettuale laddove aveva osservato che l’assunto relativo alla carenza di motivi organizzativi sottostanti alle lamentate trasferte non risultava provato, essendo l’affermazione rimasta priva di dimostrazione. Infatti, nel caso di specie era pacifico ed incontestato il titolo del dipendente a fruire della tutela assicurata dalla legge n. 104/1992. Quindi, l’obbligo di legge, cui era tenuta la resistente, risultava chiaro e dedotto in giudizio, nonché da parte datoriale ben conosciuto. Di conseguenza, ai sensi dell’articolo 2697, comma secondo, c.c., spettava alla convenuta eccepire l’inefficacia del titolo derivante al C. ai sensi del citato articolo 33, ma parte datoriale nulla aveva eccepito o chiesto di provare al riguardo, sicché non si era reso neppure necessario operare il bilanciamento tra i contrapposti interessi. Pertanto, la Corte d’Appello, invertendo illegittimamente l’onere probatorio e pretermettendo dal suo ragionamento tutte le prove documentali riprodotte con il ricorso, aveva violato non solo la previsione di cui al cit. art. 2697, comma due, ma anche gli articoli 115 e 116 del codice di rito. D’altro canto, la Corte di merito non aveva considerato che, pur a voler escludere il carattere vessatorio di ogni altro comportamento di parte datoriale, verso cui il C. aveva espresso le sue doglianze, sei mesi continuativi di trasferte imposte in località lontane dalla sede di lavoro ad un genitore con a carico un figlio affetto da sindrome down in vista della fusione per incorporazione con Banca A. erano certamente tali da concretizzare l’attacco ripetuto, continuato, sistematico e duraturo richiesto da Cass. 6 marzo 2006 numero 4774 e 17 febbraio 2009 n. 3785, per poter configurare il mobbing lesivo, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2087 c.c., della salute del dipendente. Tale lesività nella specie risultava ampiamente documentata, come da prodotta certificazione medica. Il nesso di causalità tra la malattia e lo sballottamento reiterato con trasferte e missioni, nonché con sottrazione, per i necessari tempi di aumentata percorrenza, di parte del tempo da dedicare al figlio ammalato, era desumibile da un’ammissione della resistente e da conseguente semplice presunzione ex articolo 2727 c.c.. Infatti, nella memoria di costituzione in appello della Banca M.P.S. a pagina 6 era stata richiamata e riportata, integralmente, la memoria di costituzione in primo grado della Banca A., in cui espressamente vi era stata menzione della grave malattia del figlio del C.. La presunzione, poi, ex art. 2727 c.c. era data dalla ragionevole conseguenza che un padre parzialmente deprivato del proprio diritto all’assistenza del figlio malato venga a subire una grave sofferenza psicofisica, che inevitabilmente sfoci in danno biologico, ampiamente documentato e ribadito nei precedenti gradi del giudizio. Peraltro, l’appellante aveva anche chiesto puntuale visita medico legale, che accertasse i danni subiti e il nesso di causalità degli stessi con gli illegittimi comportamenti della Banca datrice di lavoro;
tanto premesso, il ricorso va disatteso alla stregua di quanto motivatamente accertato dalla Corte di merito in relazione alla pretesa risarcitoria azionata dal ricorrente, visto che, a prescindere dalla considerazione circa la breve durata di distacchi effettuati in un arco temporale limitato di circa sei mesi ed in località vicine, dislocate ad una distanza chilometrica oscillante all’incirca tra i 20 e i 40 km rispetto alla sede di lavoro in Siracusa, l’assunto relativo alla carenza dei motivi organizzativi sottostante a dette trasferte era rimasto meramente labiale. L’istante non aveva offerto alcun elemento obiettivo da cui poter ragionevolmente desumere l’intento emulativo perseguito da parte datoriale, non avendo egli, non solo dimostrato, ma neppure dedotto che il distacco subito non fosse funzionale alla sostituzione di unità lavorative temporaneamente assenti o che riguardasse sempre e soltanto lui senza alcuna rotazione tra i colleghi.
Quanto, poi, al mancato avanzamento di carriera, anche la doglianza sul punto risultava infondata, essendo pienamente condivisibile l’affermazione del giudice di primo grado sul carattere vago e generico della deduzione. Il lavoratore non aveva, invero, allegato in modo circostanziato, né tantomeno provato, che la promozione per mero decorso del tempo costituiva per prassi aziendale una conseguenza pressoché automatica, disancorata da valutazioni discrezionali, che, rientrando nel potere organizzativo del datore, restavano sottratte al sindacato giudiziale. Parimenti infondato era l’ultimo motivo di appello, mediante il quale era stata censurata la sentenza gravata per non aver riconosciuto il carattere pretestuoso e strumentale delle contestazioni disciplinari elevate. Infatti, dalle risultanze istruttorie acquisite era emerso che tutti i rilievi disciplinari formalmente contestati al dipendente erano sorretti da un obiettivo fondamento giustificativo. In particolare, l’episodio dell’ammanco di un milione di lire alla chiusura della cassa era stato dal lavoratore ammesso nella lettera di giustificazioni del 21 maggio 2008, laddove lo stesso aveva dato atto di aver provveduto al ripianamento con danaro proprio, sicché, ad avviso della Corte catanese, la sanzione applicata del biasimo scritto, la più lieve tra le misure afflittive, appariva congrua. Analogamente, il successivo ammanco di 2 milioni, verificatosi su un versamento effettuato da un cliente, era stato dal C. riconosciuto con lettera di giustificazioni del 20 ottobre 2000, poi ripianato sempre con fondi propri. In tal caso, tenuto conto che la segnalazione dell’ammanco proveniva dal diente e che ciò aveva indubbiamente arrecato pregiudizio all’immagine dell’azienda, la sanzione della sospensione del lavoro e dalla retribuzione di due giorni non poteva ritenersi eccessiva, né tantomeno vessatoria. La circostanza, poi, che la sanzione non fosse stata eseguita non era di certo indice di una condotta prevaricatrice, ma al contrario di un atteggiamento accomodante tenuto dalla Banca in considerazione, probabilmente, dell’immediata ammissione dei fatti da parte del lavoratore e della repentina riparazione del danno economico. Riguardo, infine, al diverbio con un cliente, che aveva formato oggetto di un terzo rilievo disciplinare, lo stesso teste indicato dal ricorrente aveva riconosciuto la storicità dell’episodio, di modo che la contestazione datoriale non appariva arbitraria, mentre il fatto che ad essa non fosse seguita la comminazione di alcuna sanzione dimostrava l’implicito accoglimento delle giustificazioni addotte dal dipendente. In definitiva, secondo la Corte distrettuale, proprio la valutazione complessiva dei fatti caratterizzanti la vicenda in esame, quali emersi in sede di giudizio, imponeva di ritenere insussistente l’asserito mobbing, in quanto dei fatti all’uopo addotti a sostegno risultava attestata la sola reiterata applicazione del distacco per un periodo di sei mesi, avuto altresì riguardo alla circostanza che non vi era preciso riscontro in atti di un intento persecutorio o discriminatorio. Infine, la Corte territoriale riteneva come il mobbing non si esaurisse nella sommatoria di comportamenti già vietati dalla legge, ma postulasse ed esigesse un elemento psicologico aggiuntivo, ossia l’animus nocendi, che rende vietati i comportamenti altrimenti leciti e aggrava il significato giuridico nonché sociale di comportamenti già vietati e per i quali l’ordinamento già assicura tutela, ossia un complesso di azioni che, in quanto convergenti verso un fine ultimo vessatorio, ed organizzate in sequela, oltre ad arrecare un maggior danno, perseguono un intento di degrado che il singolo atto non sarebbe altrimenti in grado di conseguire; pertanto, dalla lettura della pronuncia d’appello non risulta che il C. abbia fondato l’azionata pretesa risarcitoria sulla violazione del cit. art. 33, né che una tale violazione sia stata dedotta come motivo di appello, laddove per contro il ricorrente si è limitato a richiamare i precedenti atti (v. in part. l’elenco degli allegati a pag. 5 del ricorso: l’atto introduttivo del giudizio, il doc. 23 ivi prodotto, la memoria di costituzione per la parte appellata, i documenti da 8 a 19 versati con il succitato ricorso introduttivo ed i certificati medici per esso C. già allegati a detto ricorso con i nn. 3, 4 e 5). Di conseguenza, non sono state chiarite, nei termini specificamente invece occorrenti a norma dell’art. 366 co. I n. 6 c.p.c., soprattutto le ragioni di diritto (causae petendi) poste a sostegno della domanda. Parimenti dicasi per quanto riguarda i motivi d’appello, che risultano invece distintamente enunciati ai punti 1 (doglianza relativa al non riconoscimento del preteso comportamento vessatorio), 2 (asserita finalità discriminatorio desunta dal mancato avanzamento di carriera) e 3 (circa il dedotto carattere pretestuoso e strumentale di precedenti contestazioni disciplinari, che sarebbe stato dimostrato, secondo la versione di parte attrice, dall’omessa applicazione delle sanzioni inflitte) delle ragioni poste a sostegno della sentenza d’appello; alla luce delle evidenti carenti allegazioni, in violazione del principio di autosufficienza, deve escludersi che il C. sia in primo che in secondo grado abbia denunciato la violazione dell’art. 33, co. 5, L. n. 104/95 per sostenere la domanda di risarcimento del danno (non patrimoniale, quantificata euro 60.000,00), di guisa che in appello (che non è un “judicium novum”, ma una “revisio prioris instantiae” – cfr. tra le altre Cass. II civ. n. 4695 del 23/02/2017) correttamente non risulta essere stata esaminata alcuna questione, in fatto ed in diritto, inerente al suddetto art. 33, co. 5, per cui, attesa la novità della censura, la stessa nemmeno è ritualmente prospettabile in questa sede di legittimità;
analogamente deve osservarsi per quanto concerne l’art. 2087 c.c. (norma di carattere generale, la quale disciplina la tutela delle condizioni di lavoro), che, ad ogni modo, non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché incombe al lavoratore ex art. 2697 co. I c.c. – che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute – l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste – ex art. 2697 co. II – per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (cfr. Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018 ed altre conformi);
di conseguenza appaiono inconferenti le denunciate violazioni di legge, pure con riferimento ai surriferiti artt. 2697, 115 e 116, visto che nell’ambito del gravame devolutole la Corte di merito ha motivatamente esaminato le doglianze menzionate nell’impugnata sentenza, disattendendole, sulla scorta altresì delle acquisite risultanze istruttorie ed evidenziando inoltre, nei limiti delle sue precipue attribuzioni e dei propri poteri di apprezzamento ed accertamento in fatto, insindacabili in questa sede di legittimità, l’insussistenza di fondati elementi di cognizione tali da poter ravvisare in concreto il denunciato mobbing, in difetto del pur necessario requisito psichico, individuato dalla stessa Corte nell’animus nocendi, su cui peraltro non risulta alcuna specifica e pertinente confutazione da parte ricorrente con la censura de qua (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 12437 del 21/05/2018: è configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo.
V. altresì parimenti Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014: ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Conformi Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009 e n. 898 del 17/01/2014.
Cfr. inoltre in motivazione Cass. lav. n. 26684/17 in data 23/05 – 10/11/2017: <<l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto>>);
analoghe considerazioni, in termini d’inammissibilità, possono valere per le doglianze mediante cui in effetti il ricorrente contesta pure il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda della parte attrice, che però irritualmente in questa sede di legittimità tende in concreto a svilirne il fondamento; pretesa tanto più inammissibile nella specie, laddove operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall’attuale e vigente formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art. 360 n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014); come è noto (cfr., tra le altre, Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016), in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ad.za 02-10-18/r.g. n. 13254-14 ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. Cfr. ancora Cass. Il civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, numero 5), c.p.c., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 – 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. Cfr. altresì Cass. Il civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme – art. 2697 55 – poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ.);
pertanto, si appalesa l’inammissibilità delle varie doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente, di modo che il ricorso va disatteso, con conseguente condanna della parte soccombente al rimborso delle relative spese;
stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, ricorrono, infine, i presupposti processuali di legge per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della parte controricorrente in euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, se dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13.
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Cassazione: qualificazione del mobbing ultima modifica: 2020-01-01T08:17:14+01:00 da