di Guglielmo Forges Davanzati e Roberto Romano, Roars, 26.6.2023.
Nel 2009 – sotto il Governo Berlusconi II – si riduce, per la prima volta dagli anni Cinquanta, la spesa per la formazione scolastica e universitaria in Italia. Sono gli anni, quelli del secondo governo Berlusconi, del tremontiano “con la cultura non si mangia”, della riforma Gelmini e della celebre frase del Cavaliere per la quale “se facciamo le migliori scarpe del mondo, perché pagare gli scienziati?”. Sono gli anni durante i quali si mise “definitivamente il paese sulla ‘strada bassa’ fatta di lavoro precario e arretratezza tecnologica”.
Nel 2009 – sotto il Governo Berlusconi II – si riduce, per la prima volta dagli anni Cinquanta, la spesa per la formazione scolastica e universitaria in Italia. La spesa pubblica per l’istruzione cresce, infatti, a partire dal secondo dopoguerra, con forte accelerazione a partire dal 1971. Fra il 1971 e il 1984 passa dal 2.9% del Pil al 4.8%, raggiungendo nel 1984 il valore più alto. Da allora si stabilizza intorno a una percentuale del 4.5% per ridursi, appunto dopo il 2009, al 3.9% del 2019. Non è accettabile la motivazione per la quale si stava riducendo, a cavallo degli anni Dieci, il saldo demografico, dal momento che, in quella fase, Paesi con la nostra stessa struttura della popolazione (in particolare, Germania e Giappone) spendevano più di noi per formazione e istruzione [Si veda qui].
Sono gli anni, quelli del secondo governo Berlusconi, del tremontiano “con la cultura non si mangia”, della riforma Gelmini e della celebre frase del Cavaliere per la quale “se facciamo le migliori scarpe del mondo, perché pagare gli scienziati?”. Come ha scritto Lucio Baccaro (2023), negli anni del secondo Governo Berlusconi – al suo apogeo – si mise “definitivamente il paese sulla ‘strada bassa’ fatta di lavoro precario e arretratezza tecnologica”. La riforma Gelmini produce un sottofinanziamento selettivo delle sedi universitarie, a danno di quasi tutte quelle del Mezzogiorno, introducendo la quota premiale per la loro assegnazione e ponendo gli Atenei in concorrenza fra loro [si veda qui].
Un lascito molto negativo e importante di quella fase consiste nel riconoscere che la Destra berlusconiana non ha mai capito le cause del declino economico italiano. Si tratta della rilevante caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro, che si inscrive nel quadro della perdita di competitività subita a seguito del nostro ingresso nella globalizzazione degli anni Ottanta-Novanta (cfr. Forges Davanzati and Giangrande, 2019). Uno dei fattori che ha contribuito alla compressione dell’intensità tecnologica delle nostre produzioni nel commercio internazionale è la perdita di capacità innovativa; la quale appare strettamente dipendente dal calo – o dal non aumento – della spesa, sia pubblica sia privata, in formazione, istruzione, ricerca scientifica. In effetti, va riconosciuto che Berlusconi eredita l’ingresso nell’euro, come pensato da Prodi e Ciampi: dunque, un assetto istituzionale basato sulla convinzione che il debito pubblico vada ridotto attraverso riduzioni della spesa pubblica, che le politiche industriali vadano frenate dalla normativa sugli aiuti di Stato, e che, in ultima analisi, la crescita economica debba dipendere dalla riduzione dei tassi di interesse (e dalla ripresa degli investimenti privati) e dalla moderazione salariale, che sostituisce le svalutazioni per tenere in attivo la bilancia dei pagamenti.
La figura 1 mette in evidenza come, dall’inizio degli anni Duemila, cioè proprio a cavallo dell’esperienza di governo berlusconiana (troppo breve quella del 1994 per esprimere una valutazione), siano notevolmente cresciute le importazioni di beni ad alta intensità tecnologica.
Se indaghiamo domanda e offerta di beni strumentali, possiamo catturare quanto e come il lascito dei primi governi Berlusconi non abbiano considerato seriamente la contrazione della spesa in ricerca e sviluppo e quella universitaria. Infatti, le risorse finanziarie delle imprese destinate agli investimenti in beni strumentali che, per definizione, incorporano l’innovazione tecnologica, non è interamente soddisfatta dalla produzione delle imprese nazionale. La figura 1 restituisce la debolezza di struttura del sistema economico nazionale, più precisamente la domanda di beni strumentali ad alto contenuto tecnologico, cioè la differenza tra domanda e offerta di beni capitali, è sostanzialmente importata. L’effetto è quello di un progressivo impoverimento del tessuto economico, unitamente a una dipendenza tecnologica dall’estero che per molti versi è peggiore di quella delle commodities. In effetti, se guardiamo all’intensità tecnologica degli investimenti (il rapporto tra spesa in Ricerca e Sviluppo e investimenti privati) è del tutto evidente la distanza che ci separa dagli altri Paesi. In altri termini, gli incentivi pubblici agli investimenti privati, così come le imposte effettive sulle imprese nazionali troppo basse, non riescono a diventare il motore del cambiamento endogeno, piuttosto un ulteriore peggioramento della struttura economica.
Berlusconi contribuì a creare nell’opinione pubblica la convinzione che non vi fossero crisi economiche nel nostro Paese. Contrariamente a tutta l’evidenza disponibile. Si trattava del gioco di finanza creativa lasciato a Tremonti, ovvero il tentativo (perdente) di migliorare le aspettative di imprese e consumatori con le parole di Palazzo Chigi, provando a fare della comunicazione uno strumento di politica economica.
L’eredità di questo berlusconismo è pessima: abbiamo una percentuale bassa di laureati e poche sedi universitarie nel confronto con i nostri principali partner europei. L’istruzione – è utile ribadirlo – un fondamentale input per i processi produttivi nel capitalismo digitale e di Industria 4.0 oltre a essere il veicolo essenziale dei diritti di cittadinanza: un Paese poco istruito, di norma, produce poco, è dipendente strutturalmente da altri, e soffre di problemi di coesione sociale, di insediamento di criminalità, di scarso rispetto delle norme formali e informali vigenti.
Vi è da riconoscere che i successori di Berlusconi al Governo non hanno fatto molto meglio di lui sulla questione, ma aver dato vita al problema non è certamente motivo di vanto.
(*) Pubblicato, in forma breve, sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”, 19 giugno 2023.
Riferimenti bibliografici
Baccaro, L. (2023). Le origini del disastro italiano: la sinistra come (e peggio) di B., “Il Fatto Quotidiano”, 19 giugno 2023).
Forges Davanzati, G. and Giangrande, N. (2019). Labour market deregulation, taxation and labour productivity in a Marxian-Kaldorian perspective: the case of Italy, “The Cambridge Journal of Economics”, https://doi.org/10.1093/cje/bez041
Reichlin, P. (2023). L’Italia, il Mezzogiorno. Riflessioni sull’economia italiana nell’ultimo ventennio, in G. Amato (a cura di). La democrazia nel XXI secolo: Treccani, pp.283.304.
Maranzano, A. M. Variato, R. Romano (2022), Politica economica ed evoluzione di struttura: una comparazione europea attraverso gli arcipelaghi settoriali, in “Economia & lavoro, Rivista di politica sindacale, sociologia e relazioni industriali” 2/2022, pp. 171-190, doi: 10.7384/106079
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Berlusconi, l’istruzione e il declino economico italiano ultima modifica: 2023-06-28T04:51:17+02:00 da