di Paola Di Natale, Scuola7, n. 237, 31.5.2021.
C’era una volta il 7 in condotta: spauracchio temutissimo, considerato che per la promozione nella scuola secondaria di secondo grado era necessario non solo avere un voto non inferiore a sei decimi in ogni disciplina, ma anche almeno otto decimi in condotta.
Una idea del secolo scorso
E non parliamo della preistoria, visto che la prescrizione compare all’art. 193 del D.lgs. 297/1994, che riprende tal quale l’affermazione contenuta nel regio decreto 1054/1923, il primo della riforma Gentile. Per gli altri gradi di scuola, i decreti emanati sotto il dicastero di Gentile, e rimasti in vigore nella sostanza per più di mezzo secolo, prevedevano un’incidenza meno decisa del voto in condotta, che poteva comportare, ma nei casi di minore gravità, l’esame di riparazione a settembre in tutte le materie. Questo fino al 1977, quando la Legge 517 lo abolì per la scuola sia elementare sia media.
Per le superiori, bisogna attendere il Regolamento dell’autonomia, che abroga, tra altre norme di legge, anche l’articolo 193 del Testo unico, con piena efficacia a partire dall’anno scolastico 2000/2001.
Una questione di comportamento o di profitto?
Una finestra si era aperta però già nel 1998: lo “Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria” (DPR n. 249/1998) prevede sì l’irrogazione di provvedimenti disciplinari, che comunque debbono avere finalità educativa e tendere al rafforzamento del senso di responsabilità ed al ripristino di rapporti corretti all’interno della comunità scolastica, ma esclude esplicitamente che una infrazione disciplinare connessa al comportamento possa influire sulla valutazione del profitto.
Ammissione e credito
Ma si sa, la storia è fatta di corsi e ricorsi: la legge 30 ottobre 2008, n. 169 reintroduce nelle scuole secondarie la valutazione del comportamento, che concorre alla valutazione complessiva dello studente e determina, se inferiore a sei decimi, la non ammissione al successivo anno di corso e all’esame conclusivo del ciclo. Dal 2009/2010, il voto relativo al comportamento concorre alla determinazione della media dei voti ai fini sia dell’ammissione all’esame di Stato sia della definizione del credito scolastico nel secondo ciclo
Condotta o comportamento
A lungo in quegli anni si è discusso della differenza tra “condotta” e “comportamento”, ora invocando le definizioni di grandi pedagogisti (a cominciare da Mauro Laeng), ora richiamando il fatto che il termine “condotta” viene frequentemente utilizzato in ambito penalistico (ad esempio nell’Ordinamento penitenziario “condotta criminosa” vs “buona condotta” o “condotta regolare” degli internati meritevoli di permessi premio). Soprattutto, all’epoca dell’emanazione della Legge, durante il dicastero di Mariastella Gelmini, hanno avuto notevole eco le differenti prese di posizione, tra “democratici”, che denunciavano il ritorno ad una scuola autoritaria, e “intransigenti”, i quali plaudivano al ripristino di uno strumento che poteva servire da deterrente ad atteggiamenti scorretti o, peggio, marcatamente bullistici.
I più equilibrati al tempo focalizzarono una questione cruciale, cioè se sia giusto porre sullo stesso piano la valutazione della preparazione culturale e delle competenze acquisite e quella dei comportamenti degli studenti, in particolare se abbia senso usare un voto numerico per manifestare l’apprezzamento di due aspetti così diversi dell’esperienza scolastica.
Comportamento vs competenze di cittadinanza
Il problema non si pone attualmente per il primo ciclo di istruzione, ove – nonostante da più parti si invochi il ritorno al voto – si utilizza un giudizio sintetico, come previsto dal D.lgs. 62/2017. La stessa norma, all’art. 1 comma 3, stabilisce dei parametri validi per tutti, legando la valutazione del comportamento allo sviluppo delle competenze di cittadinanza e indicando come riferimenti essenziali lo Statuto delle studentesse e degli studenti, il Patto educativo di corresponsabilità e i Regolamenti approvati dalle Istituzioni scolastiche.
Ma c’è anche il voto in condotta per “aggiustare la media”
Nella secondaria di II grado, però, permangono sacche di incertezza, a cominciare dalle modalità di costruzione di griglie sensate: predisporle assegnando punteggi o livelli a singoli aspetti del comportamento, oppure costruire profili “complessivi” corrispondenti a voti dal 6 al 10? E poi, a chi attribuire maggiore voce in capitolo in caso di opinioni discordanti, al coordinatore di classe? Ma c’è di peggio. Sull’attribuzione del voto in comportamento, in particolare durante gli scrutini finali, spesso si giocano partite poco educative: è difficile che venga attribuito un 6 o un 7 ad uno studente brillante in tutte le discipline che però si comporta in modo indipendente, se non ribelle, altrimenti gli si rovina la media; non è raro che il voto in comportamento si usi, da un altro punto di vista, per “aggiustare” una media e portare l’allievo alla fascia superiore di credito scolastico. Pratiche cattive, si dirà, ma purtroppo diffuse.
L’importanza delle regole per esercitare il proprio giudizio
Il nodo sta nello stabilire criteri precisi e fermi, sui quali non sia consentito transigere e che tutti si sentano vincolati seriamente a rispettare. Poche, semplici regole, da intendersi non tanto in chiave di controllo, o imposizione coatta di norme, quanto come segno di una precisa intenzionalità educativa, definizione di uno spazio in cui si può mantenere la fedeltà a sé stessi nella reciprocità e nel rispetto dell’altro, premessa necessaria per accettare doveri di solidarietà sociale.
In tal senso si può dire che sia necessario riaffermare il senso della disciplina: non perché la scuola sia un’organizzazione disciplinare, nel senso dato al termine da Foucault, ma perché è a scuola che si può imparare essenzialmente a vivere e a convivere, a considerare l’altro come un altro se stesso, a pensare la società come formata ad un primo livello da individui (cosa che postula una coesistenza fondata su di un contratto) e ad un livello più radicale e profondo da persone, il che la configura come comunità caratterizzata da un’appartenenza vicendevole. L’attenzione alla regola richiama la disciplina dell’uomo interiore, l’autodominio, l’esercizio su di sé, ed è da essa che derivano, come voleva von Foerster, la coerenza, la fermezza e la fedeltà, la capacità di tener fede agli impegni assunti, e infine la libertà, una libertà responsabile che consiste nella possibilità di esercitare in proprio il giudizio respingendo le suggestioni esterne.
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