di Antonella De Gregorio, Il Corriere della sera, 30.3.2020
– Le regole della prima scuola chiusa nella zona rossa veneta –
L’Istituto comprensivo Lozzo Atestino di Vo’ Euganeo, in provincia di Padova, va avanti malgrado l’emergenza. Ma il preside avverte: «Ai ragazzi servono la voce e gli sguardi dei loro insegnanti. Solo se si sentono seguiti imparano».
Sono stati i primi: primi a chiudere, primi a sperimentare la didattica a distanza per rispondere all’emergenza sanitaria in corso. E dopo un mese, iniziato con una certa improvvisazione ma andato a regime con un modello solido e replicabile, ora possono dare i voti alle novità che hanno stravolto la normalità della scuola, non solo la loro, ma quelle di tutta Italia. L’Istituto Comprensivo «Lozzo Atestino», che comprende nove scuole di tre comuni in provincia di Padova, tra i più segnati dall’epidemia (oltre a Lozzo, anche Cinto Euganeo e Vo’ Euganeo), ha da poco sondato l’efficacia dell’apprendimento a distanza, attraverso questionari rivolti a famiglie, studenti e docenti.
Il sondaggio
Le risposte dei cinquecento ragazzi dai 6 ai 14 anni (non sono stati inclusi i bambini della materna, 150 circa) e dei 60 insegnanti contengono indicazioni utili per tutti. Ma concludono che, a distanza, non si impara meglio, o di più. Due prof su tre e uno studente su tre ritengono che l’apprendimento sia in calo. I più ottimisti dicono che è «uguale a prima». La sensazione di perdersi tra i vari software e la confusione data dal seguire troppe cose, sono comuni a tutti.
Quindi la scuola, a «scuole chiuse», non funziona? «Il problema è che insegnanti e ragazzi partono da prospettive diverse: per i primi queste sperimentazioni sono “scuola a tutti gli effetti”, mentre gli studenti le vedono come una fase passeggera e questo li porta a impegnarsi di meno. Questi dati però danno indicazioni importanti, e li usiamo per perfezionare la nostra proposta», dice Alfonso D’Ambrosio, il dirigente scolastico. Che, appena scattati i varchi controllati sul territorio e la quarantena, si è dato da fare per «virtualizzare» le classi.
Le classi virtuali
Era il 22 febbraio, sabato. Il 23, in collegamento con i suoi docenti, ha preparato il piano d’emergenza. Il lunedì erano già pronte le prime lezioni. «Gli strumenti c’erano: con Microsoft Teams e il registro elettronico, bambini e ragazzi hanno recuperato sguardi e voci dei loro maestri», spiega il dirigente, che fino all’anno scorso insegnava fisica e matematica al liceo ed è appassionato di innovazione didattica tanto da essere stato premiato, nel 2015, come miglior docente innovatore italiano. «Ma questo era solo il contenitore, un po’ come il pulmino con cui andare a scuola. Andava riempito di contenuti. All’inizio – dice -, abbiamo proposto, alle medie, lezioni standard di un’ora; alla primaria, lezioni più semplici ed “eventi”: dirette con attori, registi e scrittori, collegamenti con altre scuole». Non essendoci un modello da seguire, D’Ambrosio e il team di insegnanti hannosperimentato e programmato strada facendo. «Io entro ogni giorno nelle lezioni, dal mio smartphone, con il microfono muto, e cerco di capire cosa funziona e cosa no», racconta.
Lezioni brevi e tante attività
«Per esempio, abbiamo visto che per tenere alta l’attenzione servivano lezioni più brevi, mezz’ora o 20 minuti. Gli spazi didattici si sono trasformati lasciando il posto a delle “agorà”, sono stati introdotti momenti di potenziamento per piccoli gruppi, e stiamo lavorando sull’inclusione, organizzando incontri diretti tra docenti e alunni, oltre a quelli che coinvolgono la classe». Il sondaggio e le riflessioni che D’Ambrosio scambia quotidianamente con la sua squadra hanno dimostrato che le repliche delle lezioni frontali, le lezioni analogiche «elettrificate», i Power Point, non sono l’approccio giusto.
L’importanza della «presenza»
«I ragazzi vogliono essere coinvolti, lavorano meglio in piccoli gruppi e se sono chiamati a fare: dal giornalino, al tema condiviso, gli ebook e gli audiolibri, i fumetti, il coding, i simulatori di robotica e dei laboratori di scienze». La scuola non si è mai fermata. «Ma abbiamo visto che i bambini hanno bisogno della voce, della presenza dei loro insegnanti. Quello che fa la differenza, è la cura, la certezza di una presenza, della quotidianità che va avanti. Solo se si sentono seguiti imparano», dice il preside. E anche se il suo istituto non è tra quelli più all’avanguardia d’Italia, il «divide» tecnologico si è colmato in poco tempo: all’inizio, l’11 per cento degli studenti non aveva accesso e connessione, ma nella seconda settimana il problema degli strumenti era già risolto: 25 tablet in arrivo dal ministero, 40 pc donati da Lenovo. «Abbiamo un forte senso di comunità, e questo ci ha aiutati».
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