di Adolfo Scotto di Luzio, Il Messaggero, 5.12.2019
Sono sconfortanti gli esiti emersi dal test Ocse Pisa sulla scuola. Il test misura le competenze relative alle capacità di lettura e comprensione del testo, matematica e scienze delle giovani generazioni. In un quadro italiano che desta molte preoccupazioni (e in ribasso rispetto alle misurazioni precedenti), il Sud, se possibile, va ancora peggio. È un tema ricorrente da molti anni ormai e, sul terreno degli esiti della scolarizzazione di massa, riflette il più generale declino del Paese.
La scuola non funziona più, in un’Italia che da molti anni, troppi, ha smesso di crescere.
L’intera vicenda pubblica dell’Italia post tangentopoli si può dire sia stata dominata dalla ricerca della formula della “buona scuola”». Berlinguer, Moratti, la Gelmini, Renzi da ultimo: ciascuno di loro ha provato ad intestarsi la nuova scuola di un’Italia nuova, puntualmente annunciata e mai veramente realizzata.
Con quali risultati? A guardare gli esiti dei test Pisa, bisogna riconoscere, pessimi. Non solo la nuova Italia non è mai veramente nata, ma la sua scuola riflette puntualmente il quadro di questo più ampio fallimento politico del Paese. C’è una circostanza in particolare che sicuramente non sarà sfuggita ai lettori ma sulla quale vale la pena spendere qualche parola. Il test Pisa riguarda ragazzi che hanno 15 anni, dunque già alle superiori ma appena licenziati dalla scuola media. Sono insomma gli stessi che hanno superato brillantemente poco tempo prima un esame di licenza dalla scuola secondaria di primo grado a cui sono stati ammessi in massa e che ha visto promossi una percentuale ancora maggiore di loro. I dati forniti dal Miur nel 2017 (ma identico discorso vale per il 2018 e il 2019) dicono che 98 ragazzi su 100 vanno all’esame e di questi 99,8 vengono promossi.
Il primo punto della questione scolastica italiana è tutto raccolto in questa evidenza. La scuola approva studenti che di lì ad un anno dimostrano di avere problemi molto seri nella lettura e nella comprensione di un testo. L’Italia, in altre parole, non ha un sistema credibile di valutazione e selezione delle competenze scolastiche dei suoi adolescenti.
L’inaffidabilità di un esame ha conseguenze di più vasta portata. Innanzitutto, perché il suo funzionamento produce effetti retroattivi sull’intero percorso scolastico che lo precede. Insegnanti e studenti sono portati a regolare il loro comportamento in funzione della prova che sanno di dover affrontare. Se alla fine gli studenti vengono promossi in massa, scartata l’ipotesi che siano tutti ugualmente meritevoli visti gli esiti Pisa, questo vuol dire che la scuola promuove i suoi studenti senza nessun riguardo all’impegno profuso e ai risultati conseguiti.
L’abolizione di fatto della funzione di filtro dell’esame pregiudica uno dei fattori fondamentali della qualità dell’istituzione scolastica.
Ma c’è poi un’altra questione che andrebbe considerata. I dati che prima richiamavo sono pressoché identici anche alla fine del ciclo della scuola superiore. Di fatto, dai 14 ai 19 anni, la scuola italiana ha abolito qualsiasi forma di vaglio non solo degli apprendimenti ma più in generale dei comportamenti scolastici che sostengono tali apprendimenti, impegno, costanza, dedizione, capacità di concentrazione, tenacia, spirito di sacrificio.
È facile cioè comprendere come in gioco siano qui dimensioni personali non meramente cognitive ma di portata etica più generale. In gioco è, in altri termini, l’interiorizzazione per mezzo del funzionamento del sistema scolastico di componenti fondamentali della personalità del giovane che sono decisive per ottenere risultati nella sfera professionale e più in generale nella vita adulta.
In gioco possiamo dire sono le basi stesse dell’ethos pubblico, e quella parte che esse svolgono nella costruzione del tono generale di una società.
Allora, ritornando agli esiti dei test Pisa. Che cosa ci dicono del nostro Paese e cosa ci dicono della società meridionale in modo particolare? Che stiamo allevando una generazione di ragazzi che fin da giovanissimi edificano dentro di sé le basi di una esclusione dall’accesso ai linguaggi complessi? Con tutto ciò che ne consegue, tanto sul piano economico che della vita politica e civile del nostro Paese? Che, come notava Massimo Adinolfi sul “Mattino”, la scuola viene in questo modo funzionando sulla base di una logica per cui a chi più ha più sarà dato? E cioè, che chi ha la fortuna di nascere e crescere in una famiglia colta, paradossalmente, non ha bisogno della scuola, e chi invece questa fortuna non ce l’ha dalla scuola non ricava molto? È tutto vero.
Ma c’è qualcos’altro che non ci deve sfuggire. Il fallimento scolastico mette in discussione le basi stesse della costituzione morale del Paese, dice di una generazione che interiorizza negli anni della sua formazione scolastica il principio che tra sforzi e risultati non vige nessun legame evidente e, soprattutto, nessuna sanzione in grado di garantire che chi più si impegna più merita. Se questo è vero in generale, non è difficile misurarne la portata al Sud, in una società, detto altrimenti, che più di ogni altra avrebbe bisogno di poter attingere alle riserve morali di tenacia, impegno e dedizione dei suoi figli. Se a questo aggiungiamo che ad andarsene dal Mezzogiorno d’Italia sono poi quelli, come si diceva un tempo, di qualche risorsa e di qualche talento, si ha tutta la misura di cosa comporti la scelta pervicacemente perseguita dall’Italia di svuotare di ogni senso il momento della prova scolastica.