Docenti senza corpo

roars_logodi Anna Angelucci,  Roars, 7.6.2020
Gilda Venezia

Nessun vero piano di investimenti sulla scuola reale è all’orizzonte dei nostri decisori politici. La dematerializzazione, imposta non dal virus ma dagli interessi economici dell’industria produttiva 4.0, cambia definitivamente scuola e università del futuro. Al ‘corpo docente’ si sostituirà un docente senza corpo, relegato nel web. Perché questo è ciò che impone il soluzionismo tecnologico (e tecnocratico) imperante. Nella visione della task force che, insediatasi al MIUR, sta immaginando la scuola ibrida del futuro, anche la fisicità è considerata una piattaforma[1]. Non più dunque una dimensione o, meglio ancora, lacondizione umana.  Siamo definitivamente disposti ad accettarlo?


La locuzione latina habeas corpus, viene posta in Occidente a fondamento giuridico della salvaguardia della libertà individuale contro detenzioni arbitrarie ed extragiudiziali. Il principio di inviolabilità dei diritti fondamentali della persona avviene, in primis, attraverso il riconoscimento del suo corpo materiale, che non può essere sottoposto ad alcuna violenza fisica o morale, né arbitrariamente violato in alcun modo. La tecnologia digitale e l’uso pervasivo dei suoi strumenti in settori sempre più ampi della nostra vita privata e sociale, stanno incidendo profondamente sul concetto di persona, anche rispetto alla nostra stessa auto-percezione. E, con la diffusione incrementale di pratiche di dematerializzazione, possibili proprio in ragione dei nuovi strumenti informatici, anche il concetto di persona fisica insieme al perimetro del nostro corpo stanno vertiginosamente cambiando. Non sono pochi gli scienziati che attribuiscono allo smartphone la funzione di un nuovo arto, né quanti studiano le modifiche dei nostri apparati motori e gestuali a partire dalle mani, strutturatisi nel tempo lungo dell’evoluzione, alla luce dei nuovi usi di questi artefatti digitali. Al nostro corpo fisico – che continua a soddisfare i suoi bisogni materiali essenziali in una quotidianità apparentemente immutata nelle sue condizioni biologiche costanti – si sta progressivamente accostando un alter ego digitale, plasmato attraverso le innumerevoli informazioni personali che ciascuno di noi nel mondo, più o meno liberamente, cede alle aziende di big data analitycs and intelligence: il risultato sembra essere oggi l’istituzione del principio della profilazione come nuova creazione collettiva dell’individuo del terzo millennio, protagonista di una second life virtuale che sempre più si sostituisce e marginalizza la vita reale.

Scuola e università sembravano resistere, se pure a fatica, a questo processo di naturalizzazione della trasformazione digitale dell’umanità e del mondo. Una trasformazione che rifiuta qualunque contrapposizione tra virtuale e reale in nome della tecnologia che abbatte questa distinzione e che rende il virtuale reale giocando sulla percezione che noi abbiamo del fenomeno, indipendentemente dalle sue proprietà intrinseche. Ma, se questa è la condizione umana del bambino o dell’adolescente nativo digitale, certamente non lo è per la stragrande maggioranza dei docenti della scuola e dell’università, in larga parte indisponibili alle lusinghe dell’industria produttiva 4.0, che da anni tenta di afferrare la didattica con la sua longa manus per fare profitti in un segmento di mercato ancora piuttosto vergine.

Come docenti, non abbiamo accettato la consegna dei corpi e la resa incondizionata alle LIM, ai tablet, ai computer e agli smartphone come surrogati delle nostre lezioni in presenza. Non abbiamo smesso di parlare, di spiegare, di studiare, di fare ricerca e raccontare ai nostri studenti quanto venivamo imparando strada facendo o avevamo imparato in passato, desiderosi di trasmetterlo a loro, nel circolo virtuoso di un pensiero e di una cultura instancabilmente critici. E quanto più scuola e università venivano assediate e lentamente penetrate da venditori di prodotti informatici d’ogni tipo, e quanto più le istituzioni pubbliche e i Governi si facevano portavoce delle istanza private dei piazzisti dell’istruzione[2] abilmente dissimulati in eleganti think tank che mescolano il gotha dell’imprenditoria confindustriale con i nomi rasserenanti dei benpensanti di centrosinistra, tanto più scuola e università hanno opposto una resistenza fisica, in alcuni casi oserei dire pre-politica, all’egemonia culturale e al dominio materiale delle nuove tecnologie digitali. Al netto, naturalmente, della fisiologica quota degli ingenui fiduciosi, dei collaborazionisti e dei mestatori sempre presenti in ogni momento della Storia.

L’emergenza sanitaria sembra invece offrire oggi un’occasione ghiottissima ai fautori della definitiva dematerializzazione dei processi di conoscenza. Le ragioni del distanziamento sociale imposte dalle condizioni di protezione della salute dei cittadini, che impattano su una scuola e una università pubbliche già devastate dal progressivo smantellamento capitalistico di decenni di politiche neoliberiste in tagli dissennati, disinvestimenti, mancate assunzioni, abbandono a sé stesse e alla loro miseria di gran parte delle istituzioni preposte all’istruzione e alla formazione, non sembrano lasciare scampo alla resa a una didattica a distanza divenuta, da emergenziale, ordinaria; da presente, a futura; da provvisoria, a definitiva.

Ne, magister, habeas corpus, ci dicono il Governo, la Ministra, la task force preposta alla ricostruzione della scuola a settembre, che se a parole e con tanta retorica all’ingrosso vagheggiano di scuola nei parchi, nei boschi, nelle biblioteche e nei musei, nei fatti investono 550 milioni di euro per la banda larga, dopo gli 85 milioni di euro di febbraio per l’acquisto urgente di tablet e pc, e ulteriori poche centinaia di milioni di euro con l’ultimo Decreto Rilancio solo per il potenziamento delle strutture per la didattica a distanza e l’adeguamento della strumentazione informatica. Un vero piano di investimenti sulla scuola prevederebbe ampliamenti strutturali e costruzione in tutta Italia di nuovi edifici scolastici ecosostenibili, con pannelli solari e fotovoltaici per la produzione di energia pulita, con aule ampie e palestre degne di questo nome, per gli studenti e per gli abitanti del quartiere. Un investimento culturale e materiale che davvero contribuirebbe a mettere in moto l’economia del nostro Paese, cui si prospettano anni terribili di recessione e disoccupazione senza precedenti.

Ma questo presuppone una concezione incorporata e creaturale della cultura, dell’istruzione e della formazione come occasione di crescita personale e volano di progresso umano e sociale prima ancora che economico; una concezione che al soluzionismo tecnologico (e tecnocratico) e alla ‘levigata’ data-crazia imperanti non interessa, anzi, se possibile, nuoce. Nella visione della task force che, insediatasi al MIUR, sta immaginando la scuola ibrida del futuro, anche la fisicità è considerata una piattaforma.

Dipende solo da noi insegnanti, a questo punto, capire che la vera posta in gioco col nostro corpo è il futuro stesso della scuola, dell’università, del Paese. E decidere che in aula, con i nostri studenti e per i nostri studenti, quel corpo, con tutto ciò che significa, lo pretendiamo ancora.

[1] https://www.roars.it/online/a-radio-popolare-il-progetto-di-scuola-ibrida-targata-azzolina/

[2] Rosssella Latempa, Scuola e valutazione ai tempi del Covid, tra Fondazione Agnelli e Invalsi, ROARS, 30 marzo 2020

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Docenti senza corpo ultima modifica: 2020-06-07T21:23:15+02:00 da
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