Ecco perché l’Italia non avrà più una classe dirigente

di Emanuele Contu,  il Sussidiario, 31.12.2018

– Il nostro sistema di istruzione si dimostra incapace di valorizzare gli studenti resilienti.
Docenti e valutazione sono il problema.

Il rapporto di Banca d’Italia su Istruzione, reddito e ricchezza. La persistenza tra generazioni in Italia, oggetto anche di un recente intervento di Alessandro Rosina su questa testata, ha richiamato l’attenzione sul tema della scarsa mobilità delle condizioni economiche di istruzione, reddito e ricchezza tra generazioni. Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, autori dello studio, evidenziano la persistenza e anzi l’aggravarsi del fenomeno nel nostro Paese, segnalando come nell’arco degli ultimi due decenni il grado di fluidità della società italiana si sarebbe ulteriormente ridotto. L’esito è sconfortante: “variabili che non sono oggetto di scelta da parte degli individui”, quali appunto la condizione della famiglia d’origine, “spiegano il loro successo economico in una misura più ampia che in passato”.

Uno dei canali che consentono la trasmissione delle condizioni di benessere dai genitori ai figli è l’istruzione. Il nostro sistema di istruzione, tuttavia, si dimostra incapace di valorizzare gli studenti resilienti: gli studenti cioè che ottengono risultati di apprendimento superiori a quelli in media conseguiti dai giovani in analoghe condizioni sociali, economiche e culturali. Detto in altre parole, ci sono studenti che nella gara della scuola partono più indietro rispetto ai loro coetanei ma, grazie ad attitudini, qualità e impegno, potrebbero riuscire a raggiungere ed eventualmente superare quanti al via si trovavano in posizione di vantaggio. Un sistema di istruzione efficiente saprebbe individuare questi studenti, coglierne le potenzialità, riconoscerne il merito e valorizzarne il percorso: sono potenziali campioni che chiedono solo di essere allenati a dovere.

Il nostro sistema di istruzione, invece, non si accorge di loro e lascia che sulla distanza l’handicap sociale abbia la meglio. Lo evidenziano d’altro canto sia le rilevazioni Ocse-Pisa 2009 e 2015, che hanno messo in luce il crescente ritardo italiano in tema di valorizzazione degli studenti resilienti, sia il rapporto Invalsi 2018, quando segnala che a parità di risultati scolastici, uno studente con uno status socio-economico elevato sceglie più facilmente un liceo rispetto a uno studente di famiglia meno abbiente. Si produce così alla scuola secondaria di secondo grado una segmentazione della popolazione degli studenti correlata con le classi sociali di provenienza.

Quando scuola e società non riescono a valorizzare la resilienza dei più giovani, lasciando che fattori indipendenti dalle caratteristiche personali e dal merito determinino il progetto di vita, la sconfitta è duplice. In termini di giustizia sociale, perché si premia il vantaggio ereditato sul merito personale. In termini di sistema paese, perché si favorisce l’avanzamento dei meno capaci a scapito dei più capaci, con il risultato di strutturare una classe dirigente inadeguata al compito e di consolidare nel sentire comune l’impressione che più dell’impegno e del lavoro, contino agganci e relazioni sociali.

Le scuole possono essere il luogo di una prima, decisiva inversione di tendenza? È certamente così, a patto di non arretrare su due fronti determinanti.

Il primo, quello della formazione del personale scolastico e della promozione del merito in sede di selezione e di sviluppo di carriera. Occorrono insegnanti dotati di una strumentazione professionale di primissimo livello, perché il compito è proibitivo: si tratta di saper riconoscere e promuovere le qualità di tutti gli studenti, facendo far loro esperienza delle potenzialità di cui dispongono e accompagnandoli a scelte di studio non scontate sia nella quotidianità, sia nei passaggi decisivi in cui si scelgono la scuola superiore e gli eventuali studi post-secondari. Non possiamo quindi immaginare di prescindere da percorsi di formazione iniziale impegnativi, che aiutino l’aspirante docente ad acquisire competenze pedagogiche aggiornate, sviluppando riflessività e autonomia, senza evitare di metterne alla prova la solidità vocazionale. E al contempo dobbiamo potenziare e rendere obbligatoria (senza le tante ambiguità del presente) la formazione in servizio.

Il secondo fronte è quello della valutazione di sistema. Dobbiamo consolidare gli strumenti fin qui sviluppati per conoscere il funzionamento, le criticità e le aree più solide del nostro sistema d’istruzione. Dobbiamo continuare a stimolare nelle scuole la riflessione sulla validità delle pratiche didattiche e gestionali, in opportuna correlazione con lo studio degli esiti di apprendimento, per sostenerne il miglioramento attivo e partecipe, l’unico in grado di produrre effetti positivi perché centrato sul protagonismo della comunità scolastica e non sulla burocratizzazione della scuola.

Fabrizio De André amava ripetere una frase: “credo che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore”. In termini più pratici che morali, significherebbe che sono in fondo poche le variabili a disposizione del singolo individuo per determinare il proprio destino, mentre molto più numerosi e pervasivi sono gli elementi esterni alla volontà personale. Questa consapevolezza può condurci a due atteggiamenti, tra loro opposti: il primo, rinunciatario, è quello di quanti ritengono che ci siano ben poche possibilità di cambiare in meglio la realtà e, quindi, non ci si possa che rassegnare al declino presente. Il secondo, responsabile, è quello di chi sapendo di avere poche decisive variabili sulle quali far leva, focalizza la propria attenzione sugli snodi essenziali e si dota degli strumenti e delle competenze per governarli. Preoccupa vedere che l’Italia, in questa fase, sembra collocarsi stabilmente nel campo dei rinunciatari.

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Ecco perché l’Italia non avrà più una classe dirigente ultima modifica: 2019-01-02T06:17:43+01:00 da
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