Per garantire flessibilità in uscita dal lavoro, si discute di un’estensione di Opzione donna a tutti i lavoratori. La penalizzazione che deriverebbe dal ricalcolo con il metodo contributivo, però, è molto elevata. I limiti della proposta e una possibile alternativa.

Gilda Venezia

Come funziona Opzione donna

Secondo Repubblica, Fratelli d’Italia starebbe riflettendo sulla possibilità di estendere Opzione donna a tutti i lavoratori, per garantire maggiore flessibilità in uscita dal mercato del lavoro. In questo modo, il futuro Governo potrebbe sostenere di aver mantenuto le proprie promesse elettorali sulle pensioni senza però aumentare il peso del debito pensionistico sulle casse pubbliche.

Opzione donna è stata introdotta nel 2004 dall’allora governo Berlusconi II e prevede la possibilità per le lavoratrici dipendenti (per le autonome i requisiti sono leggermente diversi) di andare in pensione a partire dai 58 anni di età con 35 anni di versamenti contributivi, a patto che la quota di pensione che andrebbe calcolata con il sistema retributivo (basato sulla retribuzione e non sull’ammontare di contributi versati) venga ricalcolata con il metodo contributivo. In questo modo, si garantisce la flessibilità del sistema contributivo introdotto a partire dal 1995, senza mantenere i vantaggi del retributivo (di fatto, prestazioni pensionistiche più elevate). Da una parte, sembrerebbe un buon compromesso, dall’altra, però, la penalizzazione sull’assegno pensionistico è molto elevata, anche superiore al 30 per cento citato da Repubblica come limite massimo.

Non a caso, Opzione donna è stata utilizzata solo da un numero limitato di lavoratrici, soprattutto con retribuzioni piuttosto basse e, spesso, disoccupate al momento della presentazione della domanda.

I limiti elettorali di “Opzione uomo”

L’introduzione di una “Opzione uomo” avrebbe sicuramente il merito di permettere ai lavoratori che si sono trovati senza un impiego quando erano avanti con l’età di poter anticipare la pensione e, seppur penalizzati, godere quindi di un reddito fisso senza doversi più preoccupare del reinserimento nel mercato del lavoro.

È però abbastanza evidente che la spinta per una revisione dell’età pensionabile proviene non solo dagli “esodati”, ma soprattutto da lavoratori “nostalgici” del vecchio sistema di previdenza, quando era possibile accedere alla pensione con 35 anni di contributi e con un assegno molto vicino all’ultima retribuzione ricevuta.

Una buona parte dell’elettorato, insomma, vorrebbe un sistema non molto diverso da Quota 100: pensionamento anticipato con penalizzazione relativa solo ai mancati contributi versati rispetto al requisito di anzianità di 42 anni e 10 mesi (41 e 10 per le donne). Si tratterebbe però di una misura con costi elevatissimi. Quota 100, che prevedeva requisiti ben più restrittivi di 59 anni di età e 35 di versamenti contributivi, è già costata 11,8 miliardi di euro in un triennio e dovrebbe costarne ulteriori 14,9 di spesa pensionistica aggiuntiva nei successivi quattro anni. L’idea di una “Opzione uomo” senza ricalcolo contributivo risulterebbe ancora più costosa e, visto anche il quadro di finanza pubblica ben peggiore rispetto al 2019, sembra irrealizzabile.

Il Governo Meloni sembra quindi costretto a dover decidere tra una misura con un impatto nullo sui conti pubblici, che però deluderebbe una parte consistente del suo elettorato, oppure un’opzione molto costosa che renderebbe ancora più instabile la situazione finanziaria del paese.

Esiste tuttavia una terza possibilità, non considerata dalla politica negli ultimi anni, che potrebbe garantire maggiore flessibilità con un impatto limitato o nullo sui conti pubblici, e senza penalizzazioni eccessive sull’assegno pensionistico.

Una possibile via alla flessibilità mantenendo la parte retributiva

In un documento consegnato al Governo nel 2015, l’Inps ha proposto alcune soluzioni per il riordino delle misure previdenziali e assistenziali. Gli interventi avrebbero dovuto prevedere l’introduzione di criteri armonizzati per l’accesso alle prestazioni assistenziali (una parte consistente delle misure di integrazione al reddito per chi è in difficoltà finisce a persone benestanti, a causa del quadro normativo e di criteri di assegnazione confusi), la riduzione delle “pensioni d’oro” per coloro che ricevono un assegno molto elevato grazie a criteri di rivalutazione dei contributi eccessivamente vantaggiosi e ingiusti, e un meccanismo di flessibilità in uscita dal lavoro per chi volesse anticipare il pensionamento.

La proposta per garantire flessibilità in uscita prevede che venga mantenuta la quota retributiva nel calcolo della pensione, ma praticando una revisione dei meccanismi di calcolo attuariale e di rivalutazione dei contributi che sia in linea con i coefficienti che vengono applicati alle pensioni di oggi. In questo modo, gli assegni pensionistici subirebbero una penalizzazione rispetto a quanto si sarebbe maturato in caso di flessibilità in uscita mantenendo i metodi di calcolo attuali (un’opzione però non praticabile, se non con costosissime “sperimentazioni” come quella di Quota 100), ma la riduzione dell’assegno sarebbe giustificata dalla possibilità di lasciare il mercato del lavoro in anticipo, una possibilità oggi non percorribile per chi beneficia di un sistema di calcolo della pensione retributivo o misto.

Questa strada comporterebbe un aumento della spesa pensionistica nel breve periodo, che sarebbe però compensato da un risparmio in futuro (dovuto all’importo inferiore degli assegni). Il risultato sarebbe l’introduzione di una misura che garantisce il pensionamento anticipato rispetto ai limiti attuali, senza però gravare sulle generazioni future con un aumento del debito pensionistico.

Secondo i calcoli dell’Inps, a un anticipo della pensione di poco più di tre anni sui limiti per la pensione di vecchiaia per chi gode interamente di un metodo di calcolo retributivo, corrisponderebbe un assegno di circa l’8 per cento inferiore rispetto a un’ipotetica uscita con i metodi di calcolo utilizzati oggi (che però non sarebbe possibile con la normativa attuale). Per chi rientra nel metodo di calcolo misto, la penalizzazione sarebbe del 4,5 per cento. In ogni caso, più tardi si accede alla pensione, minore è la penalizzazione.

L’unico limite elettorale di questa possibilità per il Centrodestra è il fatto che l’uscita dal mercato del lavoro sarebbe a 63-64 anni, non a 58-59 come si è discusso recentemente. Si tratterebbe comunque di una riduzione dell’età pensionabile di 3-4 anni. Peraltro, si potrebbe decidere di applicare sia questa formula che “Opzione uomo”, in modo tale che la possibilità di scelta per i lavoratori sia ancora più allargata: andare in pensione molto prima, con una forte penalizzazione, andare in pensione un po’ prima, con una penalizzazione molto più limitata, oppure andare in pensione a 67 anni di età (o con gli anni di contribuzione necessaria) senza alcuna penalizzazione.

Il Centrodestra ha bisogno di soddisfare il proprio elettorato, ma non ha lo spazio fiscale per mantenere le promesse fatte in campagna elettorale senza deluderne una quota consistente. La lettura del documento di proposte dell’Inps potrebbe essere una buona idea.