I miei studenti che si guardano senza vedersi

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Ilvo Diamanti  la Repubblica, 16.4.2015

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TEMPO fa, all’Università di Urbino, sono passato accanto ad alcuni studenti del mio corso, seduti intorno a un tavolo. Ciascuno davanti al proprio tablet. O allo smartphone. Assorti, concentrati, impegnati a battere sulla tastiera  –  perlopiù touchscreen. Immagine consueta, ma ho sorriso, pensando a quanto la dissociazione spaziale sia diffusa, soprattutto  –  ma non solo – fra i giovani.  Perché capita, sempre più spesso, di comunicare con altre persone lontane, lontanissime da noi. Parlare con amici, oppure dialogare, collaborare con colleghi e interlocutori professionali, collegati in video da altre città, in paesi, continenti.

Inutile stupirsi. Si fa la figura dei preistorici. Nostalgici di un’epoca che non c’è più. Senza contare che le tecnologie della connessione hanno agevolato e moltiplicato le possibilità di relazione. Perché hanno dilatato il nostro spazio cognitivo e operativo. Riducendo e, anzi, annullando la distanza temporale. In fondo, la globalizzazione si traduce e riproduce in stretching dello spazio, per citare Giddens. In altri termini, tutto ciò che avviene dovunque, nei luoghi più lontani, può avere un impatto immediato sulla nostra vita e, anzitutto, sulla nostra coscienza.  Per effetto della comunicazione e dei media. Mentre ciascuno di noi può inter-agire con luoghi e persone che sono “altrove”. Sempre e dovunque.

In questo modo, d’altra parte, il senso della relazione con gli altri quasi si perde. Perché io non vedo i miei interlocutori. Sono empaticamente distinto e distante da loro. Così il “mio” spazio si allarga a dismisura e, dunque, svanisce. Diventa sfondo, scenario impersonale. Come avviene a tutti coloro che parlano con qualcuno al telefono, pardon, smartphone, mentre camminano per strada, oppure viaggiano  –  in treno o in autobus. O in auto. Armati di auricolari: non debbono neppure alzare la testa. Guardarsi attorno. Prestano solo attenzione  –  istintiva e inconsapevole  –  agli ostacoli del
percorso. Per non schiantarsi addosso a un lampione o a una vetrina. Perché, in quei momenti, durante quelle comunicazioni, sono  –  siamo  –  altrove. Con la testa. Con la coscienza. Siamo in-
coscienti. Dissociati dal luogo e dal contesto.

Per questo mi divertiva osservare i miei giovani studenti, tutti lì, uno accanto all’altro, e tutti altrove. Lontano. Non c’era nulla di strano, ovviamente. Si tratta di una “routine”. Di una pratica “normale”. Anche se qualcosa di strano, in effetti, in quell’occasione c’era. Così, almeno, mi pareva. Perché, ciascuno di loro – concentrato e  “perduto” sul proprio tablet o smartphone  –  mostrava reazioni coerenti e sincroniche con gli altri. Smorfie, risolini, cenni del capo. Come se fossero in reciproca e diretta relazione. Così, per curiosità, mi sono intromesso. Ho interrotto la loro comunicazione. E i miei dubbi hanno trovato puntuale conferma. Gli studenti, infatti, dialogavano tra loro. Uno accanto all’altro, uno davanti all’altro, invece di parlarsi direttamente: messaggiavano. Si scambiavano messaggi in rete.
Vista la mia sorpresa, gli studenti mi hanno rassicurato. “Guardi che non stiamo parlando solo tra noi. Ma con molti altri amici, sparsi in Europa. In diverse città e università. Siamo su WhatsApp e chattiamo in un gruppo globale”.

Così mi sento più tranquillo. Ho capito che le tecnologie ci permettono di dialogare, in ogni momento, con persone lontanissime, che stanno altrove, come se fossero accanto a noi. E, al tempo stesso, possono allontanare chi ci sta vicino, chi ci sta parlando, fino a renderlo invisibile, ai nostri occhi. Anche se è lì, a un passo. È la comunicazione globale, bellezza. Ci permette di stare sempre insieme e vicino agli altri, in ogni luogo. Ma, al tempo stesso, ci lascia soli. E fuori luogo.

I miei studenti che si guardano senza vedersi ultima modifica: 2015-04-16T06:48:28+02:00 da
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