di Francesco Provinciali, Mente politica, 6.1.2024.
Dopo il Presidente della Consob Giuseppe Vegas (Il Messaggero del 27/8) ora anche il giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese (Il Corriere della Sera del 15/12) si cimenta in una riflessione sulle condizioni attuali della scuola italiana. Entrambe le disamine vantano il pregio dell’autorevolezza dei recensori e la loro capacità di cogliere alcune macro evidenze: sono osservazioni fatte dall’alto di ruoli prestigiosi corroborati dal carisma degli editorialisti. Ed in comune esprimono più riserve che apprezzamenti sulle scelte strategiche che caratterizzano il nostro sistema scolastico.
Dell’articolo di Vegas ho già scritto (“L’equivoco culturale che sta rovinando l’autonomia scolastica”), vorrei ora soffermarmi sullo scandaglio impietoso e veritiero del Prof. Cassese in merito ad una deriva storicamente consolidata nella politica scolastica italiana degli ultimi decenni: quella delle pletoriche conversioni in ruolo del personale docente precario, una deriva che Cassese rileva essere preponderante rispetto ad altre esigenze della scuola.
Scrive Cassese: “Ci si può chiedere: quale interesse viene prima, quello dell’istruzione degli italiani o quello della sistemazione in ruolo degli insegnanti?…. ” Che cosa spinge lo Stato ad assumere: i precari che vogliono entrare in ruolo o il fabbisogno di un’istruzione migliore?”. I risultati prodotti da questa scelta non sono confortanti: a fronte di una spesa per l’istruzione pari al 4,2% del Pil (il dato medio rilevato dall’OCSE è del 5,1%), considerando la sola istruzione secondaria, in Italia abbiamo 11 studenti per docente nel percorso liceale e 9 per docente in quello tecnico-professionale, mentre la media OCSE è rispettivamente di 14 e 15 alunni. Di converso le retribuzioni dei docenti italiani sono le più basse d’Europa, dove sono cresciute dell’1% annuo dal 2015 mentre da noi sono diminuite dell’1,3%.
In sostanza il Prof. Cassese si domanda se la priorità sia quella di una periodica infornata in ruolo dei precari considerando come i criteri di selezione non corrispondano ad aspettative di tipo qualitativo. Viene da osservare che in un sistema scolastico che va orientandosi verso la transizione digitale, ciò che comporta una prevalenza valutativa degli alunni esperita sempre più attraverso quiz e test a scelta multipla, risulta persino paradossalmente coerente una speculare selezione del personale docente effettuata in modo minimalista attraverso quiz e lezioni simulate.
Non credo sfugga al Prof Cassese come la cd. “scuola di una volta” fosse più selettiva rispetto al criterio del merito e della valutazione delle competenze, pur postulando principi come il diritto allo studio e l’uguaglianza delle opportunità formative. Basta scorrere le decine e decine di pagine della piattaforma Scuola Futura del PNRR per una “scuola 4.0” per capire come la formazione dei docenti e la didattica ad essa correlata secondo gli standard DIG COMP EDU per gli insegnanti e DIG COMP 2.2 per gli alunni sia monopolizzata da metodologie centrate sul digitale, le tecnologie e l’I.A. Come più volte rimarcato si tratta di una pedagogia ispirata a modelli mutuati dai paesi anglosassoni, nel linguaggio (l’italiano va scomparendo nelle interlocuzioni relazionali, nei comandi delle attività da impostare, negli assetti organizzativi) dove prevalgono le sigle, le formule e gli acronimi secondo una preponderante impostazione meccanicistica con ambizione risolutiva e palingenetica: applicare queste metodiche per ribaltare una concezione meramente trasmissiva e frontale degli insegnamenti/apprendimenti. Non per niente si ipotizza un ribaltamento concettuale e fattuale: l’alunno (specie nella nostra tradizione pedagogica) è sempre stato al centro del processo educativo ma adesso l’insegnante diventa “guida” o “regista”, si ipotizza un rapporto circolare a livello di formazione/autoformazione, valutazione/autovalutazione e le classi di un tempo diventano ‘flipped class room’ cioè “classi rovesciate”.
L’alfabetizzazione digitale impone e consegue l’uso massivo delle tecnologie, i tablet, gli smartphone e i PC sostituiscono libri, penne e quaderni, i video impongono un focus centrato non sulla ricerca ma sull’utilizzo delle informazioni, mentre i test sostituiscono l’esposizione narrativa (sia essa vocale o scritta) rispondendo alle prevalenti domande a scelta multipla predeterminata. L’argomentare viene soppiantato dallo scegliere tra più risposte già scritte.
Ora io penso che il Prof. Cassese – mente aperta al nuovo e quindi incline ad occuparsi di tecnologie e I.A. come scelta o deriva scontata e ineludibile- abbia evidenziato nella pletora di docenti malpagati una piaga del nostro sistema scolastico. Sommessamente vorrei che meritasse la stessa considerazione questa dilagante e pervasiva metodologia digitale, spesso acriticamente assunta come la panacea risolutiva dei mali atavici della scuola italiana. Disporremo dunque in futuro di aule attrezzate con sempre più sofisticate tecnologie per conoscere la realtà fattuale e costruire quella aumentata, avremo classi miste, tematiche e ibride, la didattica sarà basata sul game-based learning e sulla gamification, al posto delle penne premeremo dei pulsanti e – applicando l’intera tassonomia di Bloom (ma si utilizzava già da alcuni decenni) o avvalendoci del Metaverso avvieremo ad uno ad uno gli alunni e l’intera scolaresca verso l’obiettivo ambizioso del problem solving: in questo consiste la prospettiva meccanicistica di un processo automatizzato di apprendimento che ho criticato, poiché mi pare che si costruiscano a tavolino schemi e procedure che non tengono conto ad esempio della dimensione personologica insita in ogni alunno. Si fa l’analisi ‘logica’ dell’oggetto di studio e delle procedure da applicare ma non si ragiona a sufficienza sull’analisi ‘psicologica’ dell’alunno che deve impararle. Già ho scritto che questa deriva acriticamente assunta addirittura a livello politico come ‘mission’ istituzionale da assolvere (a livello di UE queste direttive che muovono verso la scuola 4.0 di fatto subentrano ai singoli programmi di studio nazionali, l’anglicismo prevalente promuove la conoscenza di una lingua universale ma mette in rapido declino quella nazionale, il criterio di “allineamento” tra tradizione e innovazione – il tener conto della cultura pregressa per inserirvi quella nuova- è più una congettura ipotetica che una strada facilmente percorribile) diventa il dogma pedagogico da assumere e applicare. Senza tener conto che in questo preciso periodo storico Paesi come la Svezia e la Finlandia (che avevano espunto il corsivo a favore della digitazione) stanno abbandonando tablet e smartphone per ritornare ad usare penne, quaderni e libri.
Non sono solo i risultati delle valutazioni di PISA o di INVALSI, le ricerche OCSE che dimostrano che la logica dell’et-et anziché quella dell’aut-aut è veramente più inclusiva dal punto di vista culturale. Un remember per il Ministro Valditara che peraltro si è già pronunciato in questo senso. Il vero coraggio non consiste nell’applicare tout-court l’innovazione ma nel contemperarla con una tradizione che fa parte della cultura e della Storia di ogni Paese. Viene anche da chiedersi dove metteremo tutta questa tecnologia che attrezzerà le “open class” e i laboratori informatici del futuro: visto che una gran parte delle scuole consiste in edifici scolastici cadenti, fatiscenti, insicuri e pericolosi.
Non era meglio utilizzare i fondi del PNRR per mettere al sicuro le scuole?
Si aggiunga infine una notazione molto concreta che sfugge alle analisi degli eminenti intellettuali che non mettono piede in una scuola da quando ci entravano come alunni: da molte parti (dirigenti scolastici, docenti, genitori…) giungono segnali allarmanti, i ragazzini non sanno scrivere sotto dettatura, non sono in grado di redigere la lista della spesa, si arrendono alla quarta riga di un tema e – laddove il corsivo è stato soppresso- non sanno cosa significhi “mettere la propria firma”.
Il dogma della scuola digitale 4.0 ultima modifica: 2024-01-07T05:37:36+01:00 da