Si è fatta invece poca attenzione ad un altro fattore che non ha attinenza con i contenuti appresi o meno, ma con l’habitus che si viene a formare nei ragazzini in così tenera età. Infatti la scuola è sì apprendimento e acquisizione di conoscenze (o “competenze”, per come oggi usano dire i pedagogisti ministeriali), ma questo può avvenire a seguito di un’altra e più fondamentale acquisizione: quella dell’autodisciplina e del carattere.

Un ragazzino (una ragazzina) di questa età ha voglia di correre, giocare, muoversi; ha il diavolo in corpo, una riserva di energia sempre pronta ad esplodere (e lo fa in determinate circostanze). La costrizione a stare in classe, seduto, ad ascoltare le lezioni e a rispettare le “consegne” date dagli insegnanti, esige la mobilitazione di una grande forza di volontà e l’esercizio di un autocontrollo sulle proprie pulsioni che deve essere – da famiglie e scuola – favorito, accompagnato, non evitato. «Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza» – lo diceva questo Antonio Gramsci e mi pare ancora un pensiero estremamente attuale; ma i suoi eredi, coloro che scrivono sul giornale da lui fondato, l’hanno completamente dimenticato.

Non solo, ma nel corso di questi anni il ragazzino (la ragazzina) deve apprendere il senso della responsabilità delle proprie azioni; capire che un certo comportamento porta con sé una conseguenza che non può essere sempre evitata o “perdonata”. E siccome anche l’apprendimento, l’imparare tabelline, poesie, il leggere, lo studiare il memorizzare è fatica e richiede anche un grande spirito di sacrificio – alzi la mano chi alle elementari era felice di studiare invece che di andare a giocare! – è evidente che una così grande mobilitazione di energie morali e fisiche deve trovare un corrispettivo in una gratificazione o in un conseguenza negativa. La bocciatura non era pertanto il cinico accanimento di una scuola dal cuore di pietra, ma la necessaria conseguenza del comportamento tenuto a scuola, nella condotta e nell’apprendimento.

La consapevolezza del non poter esser più bocciati porterebbe invece, nelle famiglie e nei ragazzini, a una completa deresponsabilizzazione, alla consapevolezza della inutilità del sacrificio e della autodisciplina: se posso ottenere il risultato senza far nulla, perché mi devo sacrificare tanto? Così si contribuisce a formare un abito che non riconosce più l’importanza dell’autocontrollo e del dominio di se stessi, proprio nell’età in cui tale abito viene a formarsi. Quando questi ragazzini arriveranno alla scuola superiore, non solo saranno impreparati, ma ormai anche incapaci di imporsi quello spirito di sacrificio che doveva venir loro dall’insegnamento nella più tenera età e senza il quale nulla sapranno in futuro fare nella società. Si sarà contribuito così a farne cattivi cittadini, perché uno degli aspetti fondamentali della cittadinanza (direi, della stessa “civiltà”) è il controllo razionale delle proprie pulsioni selvagge, la capacità di rispettare le regole e il principio per cui si è responsabili delle azioni che si fanno e quindi si deve esser anche pronti a subirne le conseguenze.

Purtroppo oggi non si guarda più a tale versante della formazione, che non è educazione o apprendimento di “skill”, ma qualcosa di assai più complesso che investe, il carattere e la mente, il corpo e la coscienza morale. Ormai in una scuola in cui gli studenti sono “clienti” – il cliente non ha “sempre ragione”? – e le famiglie si rifiutano di collaborare al processo autenticamente formativo, richiedendo solo il risultato in contanti e subito; in cui gli insegnanti, intimoriti o disillusi, pensano solo portare lo stipendio (e spesso anche la pelle) a casa, senza mettersi in urto con le famiglie e il “manager scolastico”; in una scuola in cui si pensa solo a non aver “ritardatari” o a evitare la “dispersione scolastica”, ma al tempo non si vuole investire nulla per rimuovere le cause del disagio (così come del resto accade all’università con i fuori-corso), cosa di più semplice che promuovere tutti? La polvere è così messa sotto il tappeto e tutti sono felici e contenti: gli studenti che non hanno più lo spauracchio della bocciatura, le famiglie che non devono pensare alle ripetizioni e si possono godere le vacanze in santa pace, i docenti che non rischiano nulla e non hanno più fastidiosi problemi di coscienza.

Ma attenzione a non alzare mai il tappeto! La polvere ci sommergerà.

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